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 2020  dicembre 27 Domenica calendario

Salvini e i pacchi della discordia

Matteo Salvini ne ha combinata un’altra delle sue. Per cui, approfittando del clima natalizio e per rimarcare la sua ostilità alle misure del lock-down, con il sostegno della sua amica Daniela Iavarone, si è messo a distribuire pacchi dono ai bisognosi insieme ad alcuni volontari dei City Angels e ai fotografi della sua macchina social, provvisoriamente convertita alla beneficenza in posa.
Ora di buone intenzioni è lastricata la via dell’Inferno, ma quella della bontà a buon mercato lo è ancora di più; così il capo dei Angels Furlan si è fatto, come direbbe Salvini, «girare le palle» e con tale rude premessa ha rinnegato l’iniziativa. A quel punto patatrack: Iavarone si è dimessa da madrina dei volontari e al Capitano non è rimasto che pubblicare un video in cui appare molto dispiaciuto perché qualsiasi cosa fa, tutti gli danno addosso, quando invece occorrerebbe mettersi una mano sul cuore e volersi bene. Dopo di che ha chiuso l’incidente mettendo in rete una vecchia foto di lupetti e l’invito a riconoscere «il piccolo Salvini» nell’affollata coreografia del branco raccoltosi in forma di albero di Natale.
Non solo per malignità, ma anche per scrupolo interpretativo nella sollecitazione si trova conferma di quanto, una volta grande, Salvini tenda a considerarsi egli stesso alla stregua di un dono, perfino esportabile in formato baby. Dal che le foto dell’incauto leader improvvisatosi Babbo Natale sono diventate al tempo stesso spassose e istruttive. Spassose perché in un mondo di finzioni, ogni sopraggiunta disfunzione dà modo alla cruda realtà di prendersi una comica rivincita sulla messa in scena del buon cuore. Ma al tempo stesso quelle immagini illuminano un fenomeno che a essere onesti non riguarda solo l’astuto Salvini, ma l’intero ceto della post-politica. Una comune sensibilità, si direbbe, un’attitudine predatoria, una propensione a sfruculiare gli altrui sentimenti con l’inconfessabile, ma implicito scopo di lucrare attenzione e consenso attraverso il bel gesto, il buon fine, la corda umanitaria e della solidarietà performativa.
È difficile dire quando sia cominciata questa forma di parassitismo, forse dopo che si erano esaurite le culture politiche. Da un lato il Cavalier Berlusconi, che veniva dal mondo dell’efficacia pubblicitaria, ha fatto da apripista con la distribuzione di soldi brevi manu, promesse di mega finanziamenti benefici e perfino una villa lampedusana per i profughi (che poi boh); dall’altro, magari anche per contrastarlo, anche la sinistra ha imboccato la scorciatoia della degenerazione funzionale ed emozionale dei diritti dando vita al cosiddetto buonismo. Fatto sta che nell’ultimo ventennio, e senza ragguardevoli distinzioni di schieramento, la melassa narcissico-caritatevole e quanto ne deriva in termini di show s’è fatta quasi normale strumento della politica, o di quanto ne rimane.+Vasto e triste è dunque l’elenco degli ambiti in cui tale impulso di potere si esercita ad effimero e spesso cinico “vantaggio” di quanti quegli stessi potenti definiscono, purtroppo non solo tra loro, «sfigati». Si comincia, come da intercettazioni, con i «negretti», per lo più progetti di ospedali pediatrici promozionati per altri fini (dal Brasile alla Sierra Leone); si continua, ai limiti del decoro e oltre, con le esibizioni canore di parlamentari pro-malati e disabili in festival di immensa audience; abbastanza frequenti risultano gli spettacoli in cui, come un tempo nel Carnevale, si ribaltano i ruoli sociali e i leader si fingono per un giorno cuochi e camerieri servendo ai tavoli; completano l’andazzo le visite, pure con conclamato soggiorno in tenda, ai terremotati, le pubbliche donazioni di sangue, le utili presenze alle feste dei nonni e le inesorabili partite del cuore.
Va da sé che si tratta pur sempre di cose buone e che fare è meglio di non fare e criticare. Ma il pasticcio di Salvini rivela che anche la misura è, insieme con la verità, una prova d’amore per il prossimo.