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 2020  dicembre 27 Domenica calendario

I nuovi poveri in coda per pane e 5 mandarini

Le code alle mense gestite dai volontari di Milano rivelano come dietro i successi dei grandi eventi fosse cresciuta un’ampia area di economia sommersa. È da lì che arrivano i nuovi poveri.
Luigi fa l’imbianchino, ha 55 anni, tifa Inter (ci tiene), con il Covid nessuno l’ha più chiamato ed è terrorizzato perché se non riparte tutto non sarà più in grado di pagare affitto e bollette rischiando così di retrocedere in poco tempo da lavoratore in nero a homeless. Roberto è un ex leghista, 35 anni, faceva il buttafuori in discoteca e agli eventi, oggi vive dalle suore e fa a sua volta il volontario. Sara ha due bambini, 28 anni, tiene ancora in piedi un negozietto di prodotti bio, ma ha due affitti sulle spalle e bisogno di integrare il reddito, si è fatta due conti e con il cibo che le passano risparmia 300 euro al mese. Olga è friulana, 77 anni, è dovuta venire di corsa a Milano per aiutare la figlia che faceva le pulizie negli uffici e oggi lavora poche ore a settimana, in famiglia però oltre al rischio della miseria ha trovato un genero che mena. Le biografie dei penultimi sono queste, alla povertà materiale si sommano storie di solitudine, il lockdown e il distanziamento se ai milanesi moderni/europei ha inflitto dosi massicce di smartworking e Netflix, ai nuovi poveri ha portato la rottura delle relazioni sociali. 
«Già con la Grande Crisi del 2008 avere un lavoro non escludeva più la povertà ma oggi avviene tutto rapidamente e sono raddoppiate d’un colpo le persone che si rivolgono a noi – ci dice Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana —. Nel 2008 venivano di più gli anziani, oggi sono aumentati i Neet e insieme a loro arriva di tutto. I camerieri filippini licenziati in tronco, il parcheggiatore che non ha più niente da fare». Una moltitudine che viveva di piccoli flussi di reddito che sgocciolavano dall’alto dei successi del terziario cittadino e che oggi, con le luci spente del varietà, non arrivano più. 
«Vuol parlare delle code? Venga, prenda il sacchetto e intanto ci dia una mano». Una fermata all’associazione Pane Quotidiano di questi giorni è obbligatoria. È un’istituzione più che centenaria ed è presa d’assalto da un’eterogenea coda di mamme con i passeggini, giovani immigrati sempre attaccati al telefonino, donne anziane che si appoggiano al carrello della spesa per paura di cadere, gruppetti vocianti di badanti dell’Est, tante donne silenziose con il velo, maschi anziani rigorosamente da soli e con lo sguardo perso. La coda dura al massimo venti minuti ma per altri disperati diventa persino occasione per tentare di vendere qualcosa. Due immigrati hanno steso sul marciapiede un tappeto con calzini, fazzoletti, cappellini del Milan e accendini.

Il sogno nato dall’Expo 
La coda del pane è la dimostrazione plastica che il Covid ha abbattuto le paratie, ultimi e penultimi che la politica con una certa spregiudicatezza aveva contrapposto per fini elettorali, camminano ora fianco a fianco. «Italiani e stranieri sono fifty fifty, una volta gli immigrati erano il 70%. È chiaro che in questa situazione tutte le chiacchiere su ‘prima i nostri’ si sono sciolte come neve al sole» commenta Gualzetti. I migranti assieme ai pensionati milanesi doc, le colf rumene accanto a chi ha perso il lavoro di lavapiatti, commesso, fattorino all’ortomercato, cameriere d’albergo. La verità è che solo adesso ci si accorge quanto fosse largo, nella Milano delle special week a ripetizione, il retroterra di economia sommersa, di lavoro irregolare e intermittente e di part time involontario femminile. Il grande sogno milanese, nato in una notte dell’Expo e nutrito dai successi dei Saloni, mascherava uno spazio grigio che adesso è saltato in aria e produce nuovi poveri tra coloro che non riescono più a intercettare quel flusso di introiti che permetteva di dividere un affitto in sei, di mangiare comunque due volte al giorno, persino di concedersi una domenica all’Idroscalo. Il Reddito di emergenza che in teoria avrebbe dovuto tutelare queste fasce ha funzionato poco, è stato disegnato male e con un accesso troppo difficile rispetto al puro gesto di mettersi in coda per il sacchetto.
Questo piano inclinato sta mettendo a dura prova il sistema della solidarietà ambrosiana che, come racconta il sociologo Aldo Bonomi, aveva radici robuste già nel primo e nel secondo Novecento. Poi davanti alla crisi del 2008 c’è stata l’intuizione dell’allora arcivescovo Dionigi Tettamanzi che con il fondo Famiglia e Lavoro, «ha fatto quello che è mancato al Reddito di cittadinanza, ha dato copertura immediata ai bisogni urgenti e cercato di avviare al lavoro». Il solidarismo milanese è sempre stata una cosa seria e strutturata «e oggi noto con piacere che comincia a venir fuori una piccola galassia di assistenza di sinistra. Ci vorrebbe che anche il sindacato considerasse la lotta alla povertà parte della sua agenda» commenta il sociologo. Che mette il dito in un’aperta contraddizione, quella di una sinistra e di un sindacato che a un certo punto hanno perso la mappatura delle disparità sociali e si sono dimenticati che l’Italia, unico Paese Ue, non aveva una legge che garantisse il reddito minimo. Il resto è storia dei nostri giorni con i 5 Stelle che sono riusciti ad aggiudicarsi la storica primogenitura della disuguaglianza e grazie alla bandiera del Reddito di cittadinanza si sono auto-nominati «il partito dei poveri». Ma il Reddito era un provvedimento tutto tarato sulle esigenze del Sud e nel Nord Ovest la copertura è stata più bassa (2,5% di beneficiari contro il 4,5% della media italiana e l’8,3% del Mezzogiorno).

La mobilitazione si allarga
La novità di sinistra a cui allude Bonomi si chiama «Nessuno escluso», è un progetto di Emergency, fortemente voluto dalla presidente Rossella Miccio, che ha intercettato una mobilitazione di giovani che hanno scelto di chiamarsi le Brigate volontarie dell’emergenza. Fino a sei mesi fa Carla non avrebbe accettato il doppio sacchetto: cibo da una parte, mascherine e candeggina dall’altra. Però lei, che nelle case popolari del quartiere Giambellino è conosciuta per aver aiutato tutti, la porta alle Brigate l’avrebbe aperta lo stesso. E magari avrebbe messo su il caffè. Ma siamo nel pieno della seconda ondata, fuori piove pesante misto neve, Giulia e Valerio, i volontari, sono grondanti e comunque, si sa, meglio non toccare niente. In quel bilocale occupato abusivamente non senza vergogna da quando i soldi per l’affitto non ci sono più, vivono oltre a Carla e al marito Mauro, i quattro figli, e il fratello disabile di lei, lo zio dei ragazzi. Carla non riesce a trovare lavoro da quando il suo principale, un negoziante di biancheria intima presso il quale lavorava in nero da oltre 10 anni, l’ha licenziata in tronco senza preavviso né liquidazione. I sussidi pubblici non le spettano perché non risultava assunta, figuriamoci la cassa integrazione. E il marito? Ha un furgone del quale sta ancora pagando le rate e con il quale lavora a cottimo nella logistica, ma sempre più ai margini estremi di quel mondo dei trasportatori sul quale Ken Loach ha girato “Sorry we missed you”.
La rete welfare di Carla oggi sono le Brigate. Sono partiti l’8 marzo in poco più di 100 ragazzi e ragazze per lo più dei centri sociali stavolta in collegamento con l’assessore al welfare Gabriele Rabaiotti. E oggi sono oltre mille di tutte le età e le provenienze: educatori degli oratori, scout, studenti, professori, disoccupati, signore della Milano-bene, manager anche di buon livello che mettono a disposizione il tempo libero. Più di recente sono nate le Brigate tematiche, come quella del Teatro appoggiata da Paolo Rossi.

Il rammendo della società 
La difficoltà quando ci si confronta con l’arcipelago del disagio sociale è quella di trovare dei dati certi. Il rischio di trasformare la statistica in tombola di numeri sparati a casaccio c’è e la sottolinea Rabaiotti. Per Milano e provincia sappiamo che sono circa 32 mila le famiglie coperte dal reddito di cittadinanza e corrispondono a 77 mila persone per un assegno medio di 450 euro. La pensione di cittadinanza è erogata a 6.500 persone per 220 euro. I nuclei familiari che hanno ricevuto almeno un pagamento del Reddito d’emergenza, sempre a Milano e provincia, sono 22 mila per circa 49 mila persone coinvolte e un assegno medio superiore ai 500 euro. Sappiamo poi che hanno fatto domanda per usufruire del buono spesa in 35 mila e ne sono state accettate 16 mila. Stessa scrematura per il buono casa, di 35 mila richieste ne sono andate in buca 20 mila. «I controlli vanno fatti, chi ci prova danneggia chi ne ha diritto» chiosa l’assessore. 
A rendere il quadro più nebuloso, e non solo dal versante statistico, c’è da aggiungere che le amministrazioni pubbliche in epoca Covid faticano di più perché non hanno gli strumenti per far luce su quella larga fascia di economia informale, fatta di morosi inconsapevoli e di inquilini buttati fuori da case. È «la città scura» in cui tra povertà e welfare si combatte una battaglia quotidiana. Per ora dove non arriva la mano pubblica c’è il volontariato e in una logica di collaborazione si riesce a mettere assieme un buon catalogo di prestazioni. Ma il modello non funzionerebbe se non ci fossero sarti come Frate Carlo, che dirige il Centro Sant’Antonio di via Farini. Sarto perché ricuce la società, rimette insieme le relazioni interrotte fornendo pacchi-cibo ma anche la doccia e persino un servizio di guardaroba. «Ognuno sceglie la dimensione di aiuto che è in grado di mettere in campo» dice il frate accennando al composito mondo dell’assistenza milanese dove la Caritas con le parrocchie, il mondo progressista di Emergency, il Banco Alimentare nato da Cl, il Pane Quotidiano aiutato dai Rotary, tirano tutti dalla stessa parte. E che l’insieme tutto sommato funzioni lo dimostra il fatto che tanti cinesi in difficoltà economica dalla vicina via Paolo Sarpi suonino da Frate Carlo, una circostanza che stupisce viste le tradizioni di riservatezza della loro comunità.
Ma se Milano vorrà ripartire non potrà esternalizzare per sempre i poveri a chi è specializzato nel rammendo della società, non potrà più chiudere gli occhi sul suo retrobottega. Si discute molto in città di un nuovo modello di relazioni sociali, delle idee della sindaca parigina Anne Hidalgo di ridisegnare l’urbano secondo lo schema «tutto in 15 minuti», si parla di un cittadino più consapevole capace di alternare la vita in città con quella nei borghi, ma non c’è una formula e nemmeno un dibattito altrettanto serrato sulla città scura. Forse ci si illude che basterà riavviare il motore degli eventi per diluire la povertà. Ma non basterà.