Vanity Fair, 23 dicembre 2020
Alla scoperta delle radici del carlocontismo
Carlo Conti, moderato, stakanovista, monogamo, bravo figliolo, è il volto umano del teleschermo: il bravo conduttore di cui non si conoscono scandali, sbavature, retroscena. Ha avuto pure il Covid, e, nell’era del lamento globale, non l’ha messa neanche giù dura. Mai una polemica. Unica trasgressione che gli si conosce è quell’abbronzatura arrosticciata che però lo rende immediatamente distinguibile e riscatta quella sua monotonia da eterno bravo ragazzo.
Carlo Conti, anzi «Carloconti» tutto attaccato, ha condotto tutto il conducibile, infinite edizioni di Miss Italia e Sanremo, passando per le radio libere e le tv regionali di un passato fiorentino vagamente, molto vagamente, scapestrato (per quanto possa essere scapestrato Carloconti, già impiegato di banca).
Ora Carloconti torna il 26 dicembre con una versione recovery fund del classicone Affari tuoi, che si chiamerà Affari tuoi – Viva gli sposi), sette speciali su Raiuno con questa variante: coppie che si devono sposare e punteranno su un montepremi di trecentomila euro.
«In questo periodo un po’ buio mi piaceva l’idea di dare una speranza, un po’ di futuro per queste nuove famiglie. E però il premio più alto l’ho voluto ridurre, cinquecentomila non mi sembrava il caso: già trecentomila sono una bella cifra, oggi possono aiutare molto».
In questo c’è tutto il carlocontismo. Moderazione, buon senso. Si vedono gli inizi in banca.
«Ma veramente ci son stato poco, tre anni compreso uno di militare».
Facevi l’analisi di bilancio.
«Sì. Per vedere a quali aziende la banca doveva concedere i fidi».
Ma ci capivi o facevi finta?
«Andavo un po’ avanti con ricordi scolastici. Ragioneria».
Una scuola con un nome fantastico e fantozziano, ho letto: «Istituto Tecnico Commerciale Statale a indirizzo Mercantile Emanuele Filiberto di Savoia Duca d’Aosta».
«Sì, ci sono tornato recentemente, mi hanno invitato come ex allievo. Li ho sfidati a fare una felpa col nome della scuola come si usava ai miei tempi, quelle cose con Oxford, Cambridge… Ci sono riusciti. C’è stato tutto il nome».
Hai preso sessanta alla maturità. Eri un secchione, dai.
«Ma no, puntavo piuttosto sulla parlantina, e ho molta memoria. Poi stavo attento a lezione. Stare attenti è molto importante».
Sei molto ragionieresco, ho letto. Anche a Sanremo, nelle tre edizioni che hai condotto. Dicono che sei attentissimo alla scaletta, ai tempi.
«Mah, lo faccio più che altro per non distrarmi, perché mi annoio molto facilmente».
Non ci credo. Secondo me sei un precisino. Sei quello che ci vuole per l’Italia in questo momento storico. Conti meglio di Conte. Devi gestire tu il recovery fund. C’è l’esperienza della banca, sei rassicurante.
«No, no, per carità. E poi in banca arrivavo spesso devastato la mattina, in ufficio. La sera facevo il dj, magari avevo fatto le cinque in discoteca».
Di giorno bancario, di sera DJ Konty, il tuo nome d’arte. Ma quindi ci saranno un sacco di aziende che avranno beneficiato di prestiti firmati da un giovane Carlo Conti in hangover e senza saperlo di devono ringraziare. Sei meglio del Mes
«No, per fortuna c’erano i superiori: avevo sei dirigenti sopra di me che controllavano tutto e mettevano le firme».
Comunque c’è anche un altro ministro dj, non ti preoccupare. Alla giustizia. Dj Fofò.
«No, no, non sarei mai in grado».
Va bene, sei modesto. Però questi 300 mila euro sono meglio del reddito di cittadinanza per le coppie dell’era Covid. Ma vale anche per le coppie dello stesso sesso?
«Sì, sì, certo. Però devono autocertificarsi, perché per le unioni civili non sono previste le partecipazioni. Quindi capisci che dobbiamo avere la prova che sono coppie che si devono veramente unire: non è che lo fanno solo per venire in trasmissione».
Vedi! Sei un precisino!
«No, no. È che bisogna seguire le regole».
C’è stato un periodo in cui eri meno preciso? Racconti sempre della Firenze giovanile, anche se è difficile imma- ginarti trasgressivo.
«Solito gruppo di amici da sempre. Leonardo e Giorgio…».
Pieraccioni e Panariello.
«E poi Claudio e Domenico. Tutti e cinque single e senza figli, fino a qualche anno fa, e ci ritrovavamo ogni domenica sera, appuntamento fisso, sempre nella solita trattoria, a mangiare il pesce».
Amici miei.
«Certo, era proprio così».
Allora mi devi dire chi è chi.
«Claudio è il Melandri, quello che vede la Madonna».
E il conte Mascetti chi è?
«Domenico: gira su una vecchia Saab cabrio degli anni Ottanta che non parte mai. Il Lunghi invece ha il bar, è il Necchi. Leonardo è il Perozzi. Io invece sono il professor Sassaroli. Il chirurgo fintamente serioso».
Uhm. Però gli Amici miei facevano degli scherzi tremendi. A te non ti ci vedo andare a dare i ceffoni a quelli che prendono il treno.
«Mah, nello spettacolo che abbiamo fatto a teatro con Giorgio e Leonardo, loro tentavano regolarmente di farmi cadere dal palco. O in un’intervista, in cui Giorgio presentava un suo libro, incredibilmente non si ricordava il titolo, e Leonardo gli ha sghignazzato in faccia tutto il tempo. Tutto il tempo».
Tu sei molto legato a quella Firenze lì, tanto che ci sei tornato ad abitare, abbandonando Roma. Ma com’era la Firenze in cui sei cresciuto? Quella degli anni Ottanta?
«Era bello, c’erano le prime radio libere, le tv private, le discoteche, un grande fermento. Ci si divertiva».
Programmi come Succo d’arancia. O Vernice fresca.
«La gavetta, fondamentale!».
Tu avevi una gran testa riccia e cantavi anche. In inglese. Ho sentito un singolo notevole, Through The Night.
«Ah, ah, sì, era l’epoca in cui i dj incidevano anche dei dischi. Toccava farlo».
Però parli bene inglese. Ottima pronuncia, vagamente americana.
«Credo di averlo provato sessanta volte prima di azzeccare la pronuncia giusta».
Non buttarti giù. Sperimentavi con le turiste americane a Firenze?
«No, no, assolutamente!».
Dai, non eri un po’ playboy?
«Per niente».
Qualcuno mi ha raccontato il contrario.
«Preferivo le italiane, allora, mettiamola così».
Come la fidanzata che ti investì col motorino.
«A diciotto anni, con un Ciao, fuori da scuola. Mi è venuta incontro e ha perso l’equilibrio. Così ho fatto la maturità in barella, ingessato. Forse anche quello ha contribuito al punteggio finale. E pensare che con mia madre avevamo un patto: non mi avrebbe preso il motorino, proprio perché lo riteneva pericoloso. Il patto prevedeva poi che a 18 anni avrei potuto prendere la patente per la macchina».
La famosa mamma che ti ha cresciuto da sola; e che non era molto tenera.
«Per forza, doveva fare la mamma e anche il babbo insieme: lui è morto quando io avevo solo diciotto mesi. Si è dovuta reinventare daccapo, tirando su un figlio da genitore single. Lui aveva un negozio di stoffe a Firenze: quando si è ammalato, hanno venduto tutto per pagargli le cure. E quando non c’è stato più niente da fare ed è tornata a casa dal funerale, con un figlio piccolo in braccio, e non aveva più nulla: ma nella cassetta della posta ha trovato una banconota da cinquecento lire. Che qualcuno aveva messo, per aiutarci. Non si è mai capito chi sia stato, la Provvidenza».
È riuscita però ad assistere al tuo successo. Ma non era la classica mamma italiana: ti diceva che avevi il nasone.
«Era fatta così. Non era molto da complimenti. Quando ho compiuto quattordici anni mi ha preso da parte, mi ha offerto una sigaretta. Dai, prendine una, mi ha detto. Mettiti comodo: meglio che provi a casa piuttosto che in giro. Mi ha insegnato come si faceva a tenere in mano la sigaretta, come si aspirava, e mentre mi stavo finalmente rilassando assaporando la mia prima sigaretta mi ha detto: ecco, ricordati sempre che il tuo babbo è morto di tumore al polmone per colpa delle sigarette. E quella è stata la mia prima e ultima sigaretta».
Però la mamma severa non sarà stata felicissima quando hai abbandonato la banca per darti alla radio.
«Non molto, e però ha visto che non è che mi alzavo a mezzogiorno. Mi alzavo presto, andavo alla radio. Non facevo il vagabondo, ecco».
Sempre ragioniere, insomma. Alla fine lavoravi più da dj che da bancario. Poi, quando eri già famoso, hai fatto pure il testimonial, per la Banca Toscana, nel 2000.
«Sì, insieme a Irene Grandi».
Bancario per sempre. Hai fatto tutto. Hai doppiato pure i Robinson. Pure con il Covid hai lavorato. Sei un lavoratore bestiale.
«In questi mesi ho presentato i David di Donatello senza pubblico, e coi premiati collegati da casa, una cosa un po’ strana. Poi ho fatto anche una cosa insieme a Morandi, io e lui da soli davanti alla basilica di Assisi, per una raccolta fondi. E un altro programma senza pubblico e senza or- chestra, Top 10. Poi alcune puntate di Tale e quale da casa. Insomma, tutte le sfaccettature di tv da Covid».
Quali sono i tuoi maestri televisivi? Segui anche tu l’Abc della tv italiana, quello che secondo Giovanni Benincasa è composto dalla A di Arbore, la B di Baudo e la C di Costanzo?
«Sicuramente sono baudiano. Qualche critico mi ha detto che baudeggio, come cosa negativa. Ma per me è un grande complimento».
Cosa vuol dire baudeggiare?
«Vuol dire che non fai solo il presentatore ma il conduttore, il regista, l’autore. Hai il controllo totale dei tempi. Poi ci metterei anche un po’ di Arbore, quando faccio la spalla ai comici. E Mike Bongiorno quando faccio i quiz. E poi ancora Corrado nei programmi più leggeri: ho rifatto la Corrida. Ma vorrei aggiungere anche Enzo Tortora: il suo garbo, la sua educazione; ecco, mi piacerebbe che si dicesse che nella televisione che faccio io c’è anche un grammo del suo talento».
Hai succhiato il sangue di questi personaggi mitologici per rimanere giovane: l’anno prossimo compi sessant’anni, ma sembri un ragazzino.
«Infatti a dire il vero me ne sento trenta».
Dai, alla soglia dei sessanta ti devono dare almeno una task force. Dopo l’avvocato, è ora del ragioniere del popolo.
«No, ti prego».
C’è un’ultima questione da affrontare, spinosissima.
«Dimmi».
Come hai fatto a farti le lampade in quarantena?
«No, guarda, ai primi di novembre ci sono state delle bellissime giornate. Sono stato al sole. Mi hanno detto che era importante anche per la vitamina D. A me basta pochissimo, sai. È un attimo».