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 2020  dicembre 24 Giovedì calendario

Prigionieri dei nostri riti futili

Noi l’albero di Natale lo facevamo alla vigilia. Al pomeriggio, mentre quella santa talpa di mia madre faceva gli agnolotti, io prendevo la scatola delle palline, le candeline elettriche a pinza e i lunghi filamenti argentati, che ora non si vendono più da anni. Spariti. Meglio così, lasciavano tutti i pelucchi in giro. Ora invece facciamo l’albero l’8 dicembre. Non mi ricordo quando abbiamo cominciato, ma va bene, una consuetudine vale l’altra.
Però fa una bella differenza. Vuol dire che oggi ci teniamo l’albero addobbato per un mese, ed è Natale due settimane prima. Può darsi che serva a aumentare l’attesa. Ma ci toglie qualcosa. Il Natale è un punto nel tempo, un giorno soltanto e non una ventina. È un evento, e l’attesa di un evento dovrebbe essere un pensiero nascosto dentro di noi, non un oggetto che ci sta davanti tutti i giorni, in anticipo. Anticipiamo troppo. E anticipare nasconde sempre un’ansia, una frenesia.
Forse però, a pensarci bene, noi l’albero lo facevamo alla vigilia perché avevamo una tana troppo piccola e mia madre non voleva quell’ingombro per un mese tra i piedi.
***
Quest’anno mi sono chiesta se mettere le lucine natalizie sul prato intorno alla tana. Lo faccio sempre, due o tre fili di luci intermittenti. Mi fanno allegria. Ma è proprio questo il punto: è il caso di fare allegria?
Ieri ho fatto un po’ «la talpa va in città». E ho visto una miriade di luci e addobbi, e migliaia di persone in una via del centro, e centinaia di ragazzi davanti a uno dei bar più trendy della città. Non so, c’è qualcosa di stonato…
Vado a parlarne un po’ con Pantaleo, il mio vicino che fa lo studioso. Ogni volta che entro nella sua tana lui in effetti sta studiando. Lo disturbo ma pazienza, entro. Mi ascolta e poi dice: Ti ricordi del bottone? Pantaleo è così: sembra sempre che stia pensando ad altro. Gli chiedo: Quale bottone? Il bottone nero che ci mettevamo per portare il lutto, risponde.
Già. Una volta portavamo il lutto. Ci mettevamo il bottone all’occhiello della giacca, o una fascia nera sulla manica. Come segno, perché a tutti fosse visibile il fatto che eravamo stati privati di qualcuno. E non ci limitavamo a quel segno esteriore, cambiavamo completamente vita: o meglio, lasciavamo da parte la vita per qualche mese, anche un anno. Dico la vita nei suoi risvolti più goderecci. Per esempio smettevamo di festeggiare, viaggiare, banchettare. Anche una semplice festa di compleanno ci sarebbe sembrata irrispettosa, nei confronti di chi non era più con noi, e quella vita fantastica, di cui noi continuavamo a godere, l’aveva perduta. Cercavamo di abbassare, ridurre, rinunciare, lasciar perdere: i divertimenti sfacciati, le luci, i colori... Assumevamo toni più spenti, modi più contenuti. Possedevamo ancora il dono incomparabile di vivere, noi ancora vivi, il dono di respirare, passeggiare: tanto doveva bastarci, non era il caso di strafare.
Per questo dico che adesso c’è qualcosa che stona. Settantamila morti non mi sembrano pochi. Potremmo anche portarlo un po’, il lutto, tutti quanti. Non dico di vestirci di nero e piangere, ma almeno contenerci. Eliminare l’eccesso, la stonatura.
Forse c’è una ragione per il fatto che ci comportiamo così da scellerati, riversandoci a migliaia in strade e negozi. Mi ha folgorato adesso, pensando all’inverno e alla neve che verrà. È come se i meteorologi annunciassero una valanga tra una settimana: allora tutti noi, nei sette giorni che abbiamo davanti, ci buttiamo a sciare all’impazzata in neve fresca e a passeggiare in su e in giù sui monti con le ciaspole. Lo facciamo perché poi non ci sarà più possibile farlo: per prenderci un ultimo sprazzo di vita prima del buio pesto. Provocando così noi stessi la valanga che ci era stata annunciata! Questo è il dramma. Ecco perché affolliamo tutto l’affollabile come degli scriteriati, strade, negozi, bar, ristoranti, tutto: perché ci annunciano troppo la catastrofe.
Oppure no. Questa sarebbe la spiegazione B, di tipo esistenzialista: disperazione da carpe diem esasperato. Rimarrebbe la spiegazione A, più classica e moraleggiante, e forse ahimè la più convincente: consumismo efferato e caparbio. Tradotto, non riusciamo a staccarci dai nostri riti futili. Siamo prigionieri. Siamo patelle abbarbicate sullo scoglio dei consumi. (Ci vorrebbe un coltellino che ci stacca. Ma il coltellino di chi?).
Chi vedremo a Natale? Quante persone? Per quante ore? E spostandoci dove? Stando dentro casa distanziati, o cenando sul balcone? Sanificando il panettone? O non ci vedremo e basta?
Finora ho cincischiato un po’, passeggiando tra l’erba e tra le parole. So che in questo Natale molti genitori non vedranno i loro figli, che abitano lontano, e che magari non hanno fatto il tampone in tempo e ora, per proteggerli, per la prima volta non verranno a passare le feste con loro. Questo mi sembra il centro di ogni discorso. Natale è, al di là della fede che uno può avere o non avere, la festa delle famiglie.
Anzi, è la festa delle nostre infanzie. Noi a Natale festeggiamo i bambini che siamo stati, e i bambini che abbiamo avuto. Facciamo tutti un enorme sforzo di immaginazione a ritroso, per ritrovare la gioia di quand’eravamo piccoli o avevamo figli piccoli (ecco perché il Natale ha sempre quell’immancabile alone di tristezza). In questo senso, al di là della fede, Gesù Bambino è il centro: perché è un bambino, è il Bambino per eccellenza, che ogni anno ritorna a nascere in noi. È il mistero della nostra nascita, che a scadenza annuale si rappresenta davanti al nostro stupore.
Ritrovarsi in famiglia a Natale è compiere insieme ogni volta questo rito impossibile e straziante di ritrovarsi bambini. Ed è esattamente questo che il virus ci sta togliendo: l’appuntamento con i bambini che eravamo. È il sacrificio più grande che ci chiede. Credo che dovremo accettarlo, e semmai proprio in questa deprivazione sentirci tutti più uniti. È un Natale diverso, no? È questo l’aggettivo che abbiamo trovato, il più neutro e innocuo: diverso. Bene, forse potrebbe essere un Natale in cui facciamo finalmente i conti soltanto con l’amore, senza orpelli e inutili apparenze.
Perché sì, l’amore può anche fare a meno della presenza. Può vivere nel pensiero. L’amore vive di pensiero. Noi siamo in grado di figurarci la persona amata che non c’è, e anche tutte le vite che non abbiamo, nel pensiero. Siamo in grado di vestire l’assenza e la mancanza con le vesti più preziose. Abbiamo questa capacità, l’abbiamo affinata nei secoli con l’arte, la letteratura, la musica, che non dicono altro se non che il mondo è ben più grande di quel che vediamo, che esistono universi, nella nostra mente, immensi. Gli occhi, che si nutrono di presenza, possono anche per una volta chiudersi e lasciare spazio all’immaginazione del cuore.
Per questo adesso esco dalla tana, e accendo il prato con tutte le lucine di Natale.