Si è diplomato al liceo artistico, voto 42.
«C’è qualcuno che mi odia su Wikipedia. Il voto è vero, lo avevo rimosso, ora lo rimuovo dalla rete».
Si è laureato come pittore all’Accademia delle Belle Arti.
«Ho pensato a un certo punto di fare l’artista visivo, ma al terzo anno questa cosa è naufragata. Ero idealista, bacchettone, mettevo in discussione il concetto che l’arte sia quantificabile. Le riviste avevano un prezziario a misura, inconcepibile per me. Ho fatto la tesi sulla comicità nella critica d’arte, trovavo buffo un certo tipo di uso del linguaggio».
Da ragazzino che voleva fare?
«Quello che faccio, ma non lo dicevo a nessuno. Lo sguardo era sempre al comico, anche nelle cose tragiche. Al funerale di mio nonno, avevo cinque anni, passeggiavo nella camera mortuaria multipla, vedevo gruppi di adulti, per me rocce, struggersi e piangere. Mi faceva molto ridere. Non so cos’era storto nella testolina».
Lei è pronipote di Tonino Guerra.
«Da bimbo era solo Zio Toni, quello famoso che scriveva i film a Roma. Da grande ci siamo avvicinati, grandi chiacchierate da lui. "Vieni che c’è Angelopoulos" e io fuggivo per il terrore. Un giorno mi disse "ho visto una roba in cui c’eri te, di’ loro che la macchina da presa devono metterla un metro indietro, che vieni meglio".
Gli raccontai il set di La peggiore settimana della mia vita con il castello, e lui: "Mettete solo una stanza in disordine, si chiederanno perché". Vedendo la mia incertezza, disse "fate come vi pare, ma se non la mettete vi denuncio"».
Il primo ruolo con Marco Ferreri.
«Girava un film dalle mie parti. Mi chiamano dal casting, ci incontriamo. Faccio due scene, dentro e fuori al cinema Fulgor, nel ruolo di critico di provincia saccente e contestatore. Al primo ciak non parto per l’emozione, incauto dico "scusate, stop". Sbuca Ferreri urlante da un anfratto: "Non ti azzardare più a dire stop sul mio set"».
Ha fatto anche ruoli drammatici, ultimo "Gli uomini d’oro".
«Qualche complimento è arrivato.
Mi piace provare cose scomode, ma non è detto che interessi gli altri.
Se spiazzi rischi di deludere, al di là del valore di quel che fai».
Ci sarà un suo nuovo film da regista, dopo "Tiramisù"?
«Devo ritrovare il coraggio per fare qualcosa che mi somigli di più».
I personaggi televisivi a cui è legato?
«Sono ipercritico, ma mi divertivo con l’ingegner Cane, la prosopopea dell’ignoranza. Olmo, un riassunto del birignao del bel canto confidenziale, il nome non era un omaggio a Bertolucci, ma un’idea del parrucchiere Faustino. E il Pagliaccio Baraldi, metafora perfetta del lavoro del comico, che pur di strapparti una risata muore».
I suoi film, dalla "Peggiore settimana" in poi, sono la storia di un italiano.
«È il filo rosso che lega i film scritti con Giovanni Bognetti e il regista Alessandro Genovesi. Il mondo costruito intorno a un omino in affanno, un puro che cerca di porre rimedio a piccoli grandi disastri che gli capitano anche perché lui è cosi».
Con "10 giorni senza mamma" c’è stata una svolta.
«È scattata un’identificazione, non solo verso di me, ma verso un’idea di famiglia, le dinamiche genitori-figli.
Materia che noi tre, da padri, conosciamo bene. Sono film che gli americani fanno bene, noi speriamo di proseguire nel doppio binario, una lettura che soddisfi adulti e bambini».
C’è un certo grado di realismo nei dialoghi, nella crisi dei rapporti.
«Per me l’iperrealismo, anche in una commedia, rafforza il racconto. Qui a un elemento di iperrealtà abbiamo aggiunto una figura surreale e ingombrante come Babbo Natale.
Valentina Lodovini è la compagna perfetta, Diego Abatantuono un fuoriclasse».
I suoi figli hanno visto "10 giorni con Babbo Natale"?
«Sì, sono severi ma hanno gradito, come molti loro compagni di scuola.
Lo considero un investimento sul futuro».