il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2020
Intervista a Matteo Ricci
Matteo Ricci ha 26 anni. Non ha le spalle strette, non indossa la maglia numero sette (De Gregori dixit), ma la 8. Però è un centrocampista dello Spezia, formazione neo promossa in Serie A, e anche Matteo, in qualche modo, è un neopromosso: dopo le giovanili nella Roma, ecco la Serie C, la B, fino al sogno di scendere in campo tra i big, e a San Siro. Peccato che non c’era nessuno sugli spalti…
Bella fregatura.
(Ride, a lungo) È la verità, ed è il mio primo anno, come per lo Spezia; (ci pensa) uno dentro di sé si incita, “dai, dai, è arrivato il momento, ci godiamo tutte le sensazioni”, e invece il godimento è a metà.
San Siro vuoto…
Eh già, ci abbiamo giocato due volte, speriamo di tornarci in futuro. Che peccato.
San Siro ha l’eco.
Da una parte mi consolo: “Dai, il primo anno così, è più facile come assestamento”.
Però.
Dall’altra parte mi scappano le parolacce; (cambia tono) gli stessi nostri tifosi avevano la curiosità di seguirci in Serie A, e pure io ero curioso di vivere quel clima.
E invece.
Stadi vuoti, sentiamo tanto gli allenatori.
Anche troppo.
Il nostro mister ha molta grinta, urla sempre.
Voi più attenti a insultare l’arbitro. Vi becca.
(Ride) E quando ci sono i contatti?
Cioè?
L’“ohhhhh” di dolore dopo un fallo sembra qualcosa di enorme; comunque uno ascolta pure gli avversari.
Vi spiate.
Scappa di sentirli mentre si danno indicazioni sulle azioni.
E se bluffano?
Come capita che urlano “uomo”, come se ci fosse qualcuno in marcatura alle tue spalle, quando non c’è nessuno.
Lei ha esperienza, nonostante i soli 26 anni.
Ho giocato in ogni categoria.
Il tifoso cambia?
Più o meno è uguale, magari cambia l’approccio: in alcune piazze hanno più la puzza sotto il naso e pretendono di veder giocare bene la squadra, in altre preferiscono la battaglia.
Senza pubblico l’adrenalina cala.
Si sta più tranquilli, è bene per i giocatori con il carattere non formato, quelli che si spaventano dei fischi del pubblico.
Ronaldo da vicino.
È una statua di ghiaccio, una macchina, tocca la palla con una qualità incredibile: è entrato sull’1-1 e subito doppietta.
Lukaku.
Bello grosso, ma noi abbiamo Galabinov e siamo abituati; (sorride) il nostro allenatore, quando deve fare paragoni su un attaccante, ci parla sempre di Lukaku; eravamo preparati come se lo conoscessimo.
I suoi miti da ragazzino.
Sono cresciuto con la Roma, papà mi portava in curva con mio fratello, quindi Totti e De Rossi; (sorride) con loro mi sono allenato, e quando ho incontrato Francesco l’estate scorsa, mi ha pure salutato.
Torniamo al sogno.
Totti?
No, la Serie A.
Ho passato dei momenti della carriera avvolto da dubbi, mi domandavo se ci sarei riuscito; poi ecco l’anno giusto.
Con chi ne parlava o parla?
Con mio fratello (gemello, e calciatore del Sassuolo), ma soprattutto devi confrontarti con te stesso; in questi ultimi anni, qui a La Spezia, ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste, serie.
Spesso i calciatori rispondono alle domande in maniera standard.
È il gergo calcistico, poi quando uno non sa cosa dire, si rifugia in quelle tre, quattro frasi classiche; però capita anche agli allenatori e ai commentatori.
Una delle vostre standard: “Un giocatore deve sempre farsi trovare pronto”.
Un classico! (ci pensa) E perché uno non dovrebbe farsi trovare pronto?
Boskov sosteneva: rigore è quando arbitro fischia.
Aggiungiamo: sennò c’è il Var.
Maradona e Rossi.
Non li ho vissuti, ma quando sogni di diventare un calciatore ti informi, e sono cresciuto con le cassette di Van Basten, Pelé, lo stesso Maradona; quando è morto Maradona stavamo per entrare in campo e siamo rimasti di sasso.
Su Wikipedia è il secondo Matteo Ricci.
Lo so, prima c’è un gesuita che ha scoperto il Giappone.
Va superato.
Eh, ma scoprire il Giappone non è roba da poco.
Nonostante la pandemia, con le donne regge il fascino del calciatore?
(Sornione) Assolutamente.
Un augurio calcistico per il 2021.
Stadi pieni, lo Spezia salvo…
E un gol?
Questa sera nel derby contro il Genoa e uno alla Lazio.