la Repubblica, 22 dicembre 2020
Su "L’affittacamere del mondo" di Riccardo Staglianò (Einaudi)
Dati e storie. Numeri e testimonianze. Un’inchiesta giornalistica lunga un libro per trovare una risposta alla domanda: Airbnb è la nostra salvezza o la rovina delle città? Con L’affittacamere del mondo (Einaudi) Riccardo Staglianò compie un lungo e onesto viaggio nel pianeta degli affitti turistici e del modo in cui hanno cambiato il modo di viaggiare. E non solo.
Un’inchiesta onesta, perché parte da una tesi, parecchio negativa per la più famosa delle piattaforme di affitto di case, per approdare a conclusioni che non assolvono Airbnb (almeno per la sua politica sfuggente sul fronte del fisco e il rifiuto di parlare con l’autore) ma portano in evidenza anche le ragioni di chi la utilizza.
Staglianò parte da una lunga storia di copertina scritta per il Venerdì di Repubblica sull’overtourism a Firenze, scaturita da un dato strabiliante: un quarto delle abitazioni del centro storico del capoluogo toscano offerte in affitto su Airbnb. Un segno tangibile di una rivoluzione iniziata solo 12 anni fa a San Francisco, quando Brian Chesky e Joe Gebbia decisero di cogliere un’opportunità, e che ha trovato il suo punto di approdo con la recentissima quotazione in Borsa.
Gli alberghi di Frisco erano strapieni per una convention di design e i due costruirono un minisito per affittare tre materassi gonfiabili (air beds, ecco da dove viene il nome) nel salotto dell’appartamento di cui faticavano a pagare l’affitto. Successo immediato e decisione di continuare.
Questa è l’epico inizio. Ben presto, però, spiega Staglianò, lo spirito un po’ hippie degli esordi si è trasformato in un gigantesco spostamento di ricchezza all’interno del mercato mondiale dell’ospitalità. E nonostante la società abbia tentato spesso di ricordare il mito del “divano in affitto” la stragrande maggioranza delle transazioni riguarda ormai case intere in cui i proprietari non abitano.
L’affittacamere del mondo ci accompagna attraverso l’Italia delle città d’arte, ma anche a Barcellona, Amsterdam e San Francisco. Per vedere che i problemi sono simili dappertutto. E se da una parte molti piccoli proprietari hanno trovato in Airbnb una fonte di sostentamento importante nell’era dei lavori precari, dall’altra sono sorte grandi società che investono in ristrutturazioni milionarie finalizzate solo alla rendita turistica. Per non parlare dell’indotto, con gestioni di centinaia di appartamenti in mano a una sola azienda. Flussi di denaro che hanno trasformato i centri di Venezia e di Napoli, ma anche il mercato degli affitti a Portland o New York. Con i comitati di cittadini che chiedono limitazioni alla piattaforma (non è l’unica, come ricorda Staglianò, esistono anche Booking, Expedia e molte altre, ma Airbnb ne è diventata ormai il paradigma) e le amministrazioni pubbliche impegnate in una “guerra a bassa intensità” nel tentativo, spesso infruttuoso, di governare il fenomeno.
E se in molte città del mondo sono stati fissati limiti ai periodi complessivi in cui si può affittare un appartamento per uso turistico, dappertutto il vero muro di gomma rimane quello fiscale. I numeri, quei numeri che fanno da solida base al lavoro di Staglianò, in questo caso sono sconsolanti: Airbnb ha accettato di raccogliere la tassa di soggiorno per riversarla a 23 comuni italiani, ma sono mille quelli in cui ci sono alloggi che permette di affittare.
E sempre la stessa piattaforma ha pagato di tasse nel 2017 131mila euro e 2 milioni nel 2018, anno in cui, secondo l’ipotesi del libro (cifre ufficiali Airbnb non ne fornisce) dovrebbe aver guadagnato di commissioni più di cento milioni. Tutto legale, bene precisarlo. Ma Staglianò chiosa: «Ciò che ci piace da consumatori ci scandalizza da cittadini».