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 2020  dicembre 22 Martedì calendario

Non sparate su Catilina

Per sovrintendere alla battaglia decisiva per annientare Lucio Sergio Catilina – Pistoia, primi di gennaio del 62 a.C. – venne incaricato un suo ex sodale: Gaio Antonio Ibrida. «Fu somma astuzia e perfidia» – scrive Pasquale Martino in La guerra civile non si farà. Roma 70-63 a.C., che sarà pubblicato in gennaio dall’editore Radici Future – «mandargli contro colui che fino a un attimo prima era stato suo socio», Gaio Antonio Ibrida, appunto. Anche se, secondo Cassio Dione, è probabile che i Romani non sapessero nulla di quel rapporto. Può darsi. Però è certo che Marco Tullio Cicerone ne fosse al corrente. E fu Gaio Antonio, sempre secondo Cassio Dione, che fece tagliare la testa di Catilina per «comprovarne la morte». Comunque il capo della rivolta ebbe poi una tomba in cui non si può essere neanche certi che siano stati davvero deposti i suoi resti. In compenso su quella tomba i Romani continuarono per anni a deporre fiori. E Gaio Antonio Ibrida che fine fece? Dopo la battaglia fece pulire le armi, perché «non porta bene il sangue di un combattimento fratricida». I soldati lo appellarono come imperator, gli fu concesso di decorare d’alloro i fasci littori. Sarebbe dovuto andare subito a Roma a depositare le corone di lauro in Campidoglio. Ma prima fu costretto a correre in Macedonia per debellare una bellicosa tribù illirica, i Dardani. I quali gli inflissero un’umiliante sconfitta. E così Cicerone ebbe campo libero per appropriarsi della vittoria sul ribelle. Che per anni e anni sarebbe stato identificato come il male assoluto. 
Dopodiché di «riabilitazioni di Catilina», nei secoli successivi alla sua morte, ne sono state scritte a bizzeffe. Non è questo però il caso di Martino, il quale, invece, grazie a «una padronanza non comune della letteratura e della lingua latina» (riconosciutagli, nella prefazione al libro, da Luciano Canfora) si limita a smontare pezzo per pezzo la costruzione demonizzante che si è depositata sul ribelle. L’impegno di Martino «di mettere in discussione e additare i punti deboli (o che appaiono inverosimili) della “leggenda nera” a carico di Catilina», scrive Canfora, «è encomiabile». E, dal punto di vista della critica, «più che legittimo». Anche se – gli rimprovera garbatamente il prefatore – «talvolta si coglie una sorta di preconcetto positivo» nei confronti del nemico di Cicerone. A dire il vero persino Sallustio – il quale ancor più di Cicerone descrisse il rivoltoso a tinte fosche per scrollarsi di dosso il sospetto d’aver un tempo parteggiato per lui – si sente costretto a prendere le distanze da alcuni eccessi dell’anticatilinismo. Come, ad esempio, dal racconto secondo cui i congiurati avrebbero fatto un giuramento di iniziazione bevendo sangue umano misto a vino. 
Per cominciare Martino respinge la dizione «congiura di Catilina». Non perché non si sia trattato, scrive, «anche» di una congiura. Ma perché «il tempo e la ripetitività hanno finito con rendere inespressiva la definizione stessa, riducendone la potenza significante». L’autore segue l’indicazione di Ettore Lepore che – nella fondamentale Storia di Roma (Einaudi) a cura di Arnaldo Momigliano e Aldo Schiavone – usò l’espressione «crisi catilinaria», alludendo ad una «precipitazione politica – da analizzare nella sua dinamica, nelle componenti e nei protagonisti – che ebbe il valore di riassumere in qualche modo i dilemmi di una transizione».
Lucio Sergio Catilina, però, «entra in questa storia intricata portandosi dietro qualcosa di assai particolare»: una sua specifica «leggenda nera». Che, scrive Martino, come ogni leggenda è «impastata di verità e di invenzione». Non si può sottovalutare il fatto, nota l’autore, che la leggenda nera sia stata «usata» contro Catilina, lui vivente, «per delegittimarlo, per fargli il vuoto intorno». Lui morto, «la demonizzazione consacra in via definitiva le ragioni di chi ha prevalso, diffondendo un messaggio tranquillizzante: il personaggio in questione ha fatto la fine che meritava ed è stato meglio per tutti».
Al fine di demonizzarlo, Plutarco lo accusa addirittura di fratricidio. Di più, non solo, ai tempi delle violenze sillane, avrebbe ucciso il proprio fratello ma, perché il delitto passasse in cavalleria, avrebbe preteso da Silla che il nome dell’ucciso fosse inserito nelle liste di proscrizione. In cambio Silla gli avrebbe chiesto di ammazzare un suo nemico personale. Secondo altre versioni avrebbe ucciso non il fratello, bensì il cognato… ma non si sa se ci si riferisca al marito della sorella o al fratello della moglie. «Nella serie di omicidi attribuiti a Catilina», scrive Martino, «si ha la sensazione di trovarsi di fronte a duplicazioni e sovrapposizioni fantasiose». Accuse a tal punto grossolane che persino Cicerone rinunciò a farle proprie. 
Ma torniamo al quesito fondamentale: perché Cicerone insistette all’inverosimile su quella vicenda? Perché fece di tutto per identificare il suo consolato con la repressione della trama catilinaria? Per promuovere, è la risposta di Martino, «un’autocelebrazione che era soprattutto un’autodifesa», visto che i suoi avversari volevano fargli pagare alcuni conti del passato «rimasti in sospeso». Gli sembrava, non senza ragione, che l’essersi opposto con vigore a Catilina potesse qualificarlo come salvatore della patria. Un salvatore della patria «in grado di riproporsi, nelle crisi successive, quale autorevole punto di riferimento della Repubblica». Si trattava in qualche modo di un investimento per il proprio futuro. Per questo gli bruciava il mancato riconoscimento da parte di Pompeo.

È lo stesso Cicerone a scriverne in una lettera indirizzata all’amico fraterno Tito Pomponio Attico: «Troppo a lungo (Pompeo) ha taciuto sulle gesta di cui ero stato protagonista». Finché nel 60 Pompeo cedette, decise di lodarlo in Senato e «dissipò, almeno in parte, la convinzione che si era in molti radicata», cioè «che i due uomini politici avessero maturato valutazioni divergenti sulla crisi catilinaria». Cicerone era riuscito nell’impresa: aveva fatto diventare le orazioni contro Catilina un mito fondante dei tempi che si annunciavano. Mito al quale si era dovuto piegare persino colui che era stato il principale luogotenente di Silla, che nel 71 aveva sconfitto Spartaco, Mitridate, Tigrane d’Armenia e che adesso era l’uomo più potente di Roma: Gneo Pompeo Magno.
Trascorsa una decina d’anni, quel Pompeo si troverà a dover combattere una guerra civile contro Cesare (49, passaggio del Rubicone). E troverà la morte in Egitto dove era fuggito dopo la sconfitta di Farsalo nel 48. A quei tempi a fianco di Cesare c’era Sallustio che – a seguito dell’assassinio dello stesso Cesare (44) – sarebbe stato il primo a scrivere il De Catilinae coniuratione. Come mai? La ricostruzione di Sallustio è scritta sulla falsariga di quella ciceroniana: fa da sfondo la guerra civile tra Mario e Silla (83-82); la congiura, secondo Sallustio, sarebbe stata tramata a lungo e avrebbe dato luogo ad un atto di insubordinazione assai pericoloso; i congiurati erano aristocratici ex seguaci di Silla che, insoddisfatti perché non si consideravano sufficientemente compensati per essersi schierati a suo tempo contro i seguaci di Mario, avevano fatto proprie le parole d’ordine mariane «per andare incontro a una propria avventurosa fortuna attraverso la conquista delle istituzioni repubblicane».
In questa ricostruzione sallustiana Cicerone è trattato con rispetto – scrive Martino – e «un po’ di garbata ironia». Per contro «giganteggiano» le figure di Cesare e Catone. La tesi dello storico tedesco Theodor Mommsen fu che Sallustio volesse salvare Cesare dal sospetto di aver dato corda ai congiurati. Sarebbe, osserva Martino, una caso esemplare di «eterogenesi dei fini»: Sallustio «che parte dall’idea di proteggere la memoria del suo ex leader e di alleggerire sé stesso da un passato di militanza popolare… rivela impreviste qualità di storico e di scrittore». Scrive quando tutti i principali attori della vicenda sono ormai morti e un’epoca si è chiusa, tempi in cui ha avuto inizio una battaglia decisiva: quella della memoria. E in quel campo vince.

Il fatto è che niente di quella vicenda ha un vero e proprio fondamento storiografico. Quasi non esistono fonti primarie, vale a dire documenti. Ci sono le lettere di Cicerone, nessuna del 63, alcune precedenti, molte successive. C’è un’epigrafe (forse due), in cui si legge il nome di Catilina. C’è una missiva personale di Catilina riportata da Sallustio. Quanto alle orazioni ciceroniane, fa presente Martino, «non si tratta della registrazione stenografica dei discorsi, ma di testi rimaneggiati per la pubblicazione, quindi già orientati ad un’operazione storiografica interpretativa». Del resto, prosegue l’autore, «anche delle lettere menzionate non abbiamo gli originali bensì il testo tramandato e più volte ricopiato, che perciò potrebbe essere stato oggetto di manipolazioni o malintesi». Pertanto «questi documenti non bastano per fondare un’autonoma ricostruzione storiografica». Tutti coloro che successivamente ne scrissero sono più che sospettabili di aver avuto un interesse personale nell’aver dato un taglio specifico alle loro ricostruzioni.
Chi si occupa di eventi che sono avvenuti oltre duemila anni fa deve imparare a «lavorare pazientemente sugli indizi, porsi domande nuove per interrogare fonti che sono sempre le stesse, dare spazio all’intuizione e alla fantasia per far combaciare diversamente i dettagli». Il che «comporta altri rischi che gli studiosi di storia antica sono costretti a correre spesso e volentieri». Si deve «sviluppare una sorta di sesto senso, abituarsi a familiarizzare con le categorie del possibile e del verosimile, anche là dove mancano le prove». Soprattutto là dove mancano le prove. L’importante «è che il lettore ne sia avvertito, che in qualche modo solidarizzi con la fatica e i problemi dello storico, che sia compartecipe e simpatetico». E che in ogni caso le congetture siano presentate per quel che sono: semplici ipotesi, nient’altro che supposizioni.

Canfora impreziosisce la prefazione riprendendo un interessante dibattito di un secolo fa in Germania tra il comunista – allievo di Eduard Meyer – Arthur Rosenberg e il grande storico conservatore Matthias Gelzer. Rosenberg sosteneva che Catilina era stato «una personalità assolutamente seria» che aveva dato la vita per un «obiettivo degnissimo»: la «liberazione dai debiti del ceto contadino italico». Talché «la sconfitta di Catilina fu un punto di svolta nella storia della Repubblica romana… Da quel momento in poi il ceto dei piccoli contadini ha perso, sul piano economico, la sua autonomia e, sul piano politico, la sua forza; la lotta per il dominio dello Stato è ormai tra il ceto proprietario da una parte e l’esercito dall’altra». Sarà poi Giulio Cesare, secondo Rosenberg, colui che porterà a compimento, nelle nuove condizioni, la rivoluzione fallita con i Gracchi e con Catilina.
In polemica con Rosenberg, Gelzer ridimensiona radicalmente l’intera vicenda della congiura catilinaria riducendola, scrive Canfora, a «un episodio gonfiato da Cicerone per autolatria». Si rifaceva Gelzer a quel che aveva sostenuto Dione Cassio, il quale scrisse che di quella vicenda si sarebbe parlato assai poco «se Cicerone non avesse ossessionato i suoi contemporanei e i posteri» con le sue insistite rievocazioni della cosiddetta «congiura di Catilina».
Una «polemica weimariana» la definisce Canfora, riferendosi a dibattiti della Germania di quell’epoca che avevano un evidente sottofondo politico. Discussioni che ebbero una ripercussione in Italia su Concetto Marchesi, il quale nella seconda edizione della sua Storia della letteratura latina (1929) mise in dubbio la portata della «congiura» che nella precedente edizione del libro aveva definito, dandone implicitamente un giudizio, «sovversione»: «Se congiura veramente ci fu – scrisse nel 1929 l’insigne latinista – non è dato affermare con sicurezza». Acuta considerazione. Il merito del libro di Martino è principalmente quello di offrire un contributo sostanziale al fine di smantellare molti pregiudizi su quel che a questo punto potremmo definire l’enigma di Catilina.