Corriere della Sera, 22 dicembre 2020
Gli italiani che resero l’Egitto uno Stato moderno
Era l’italiano, un tempo, la lingua ufficiale della diplomazia egiziana. In italiano era la rivista antenata della Gazzetta Ufficiale del Cairo. Italiani erano in buona parte gli uomini chiamati laggiù, con ammirazione, per fare dell’Egitto uno stato moderno. E vedere oggi come i nostri diplomatici e i nostri magistrati vengano tutti i giorni presi a ceffoni nella loro richiesta di verità e giustizia su un crimine come le bestiali torture inflitte a Giulio Regeni fa salire la collera. E insieme il rimpianto per quella grande occasione storica che fu data al nostro Paese e venne buttata via.
«Uno Stato serio non si lascia trattare così», ha accusato Giuliano Ferrara. «Non si lascia trattare così», ha insistito parola per parola Ernesto Galli della Loggia denunciando il senso di impotenza di tutti davanti all’impudenza di un despota come Al Sisi. «Solo schiaffoni per l’Italia in affari con l’Egitto», ha titolato Il Manifesto. Siamo su «una china che rischia di farci scivolare nell’irrilevanza», ha scritto Goffredo Buccini, abbiamo «quasi certezza di vedere celebrato un processo in contumacia ad aguzzini che mai sconteranno un giorno di galera». Colpa dei rapporti di forza internazionali che ci vedono sempre più deboli? Delle incertezze e ambiguità avute sulle rivolte arabe? Della morsa di Putin ed Erdogan? Di Macron e della Legion d’Onore al dittatore del Cairo? Tutto l’insieme. Ma sullo sfondo vale appunto la pena di rileggere quel pezzo di storia di cui dicevamo.
Siamo all’inizio dell’Ottocento. Passata la Campagne d’Égypte di Napoleone, dal «processo di frantumazione» dell’impero turco esce trionfante Muhammad ‘Ali Pascià, un militare ottomano albanese nato nell’attuale Macedonia greca, che sarà ricordato come padre fondatore dell’Egitto moderno. Un uomo, ricorda lo scrittore e diplomatico Ludovico Incisa di Camerana ne «Il grande esodo» edito da Corbaccio, «che apre il Paese al mondo occidentale, avvia il suo ammodernamento ed è chiaramente ben disposto verso gli italiani e in particolare gli esuli dei primi moti risorgimentali».
Erano convinti, lui e i successori Abbas e Said fino al 1863, spiega Ibraam Gergis Mansour Abdelsayed nel saggio «Italiani sulle rive del Nilo», «che solo attraverso l’integrazione tra la società e le varie comunità straniere e attraverso l’inserimento negli affari statali di personale straniero qualificato si potesse concretizzare la necessaria innovazione per uscire dall’arretratezza». Fu con lui che «la società egiziana d’allora, e fino all’epoca in cui si fu instaurata la repubblica, fino alla metà del Novecento, acquistò un carattere cosmopolita, dove convivevano e collaboravano culture diverse di ogni parte del mondo».
In testa, i nostri nonni. «Italiano l’unico vice-ammiraglio europeo della Marina egiziana; l’ordinamento della milizia secondo i suggerimenti italiani; le costruzioni pubbliche fatte per opera di Italiani, che primi introdussero in Egitto il gusto per le belle arti; le intraprese affidate agli Italiani; attuati per mezzo di Italiani i miglioramenti agricoli; italiani i consulenti legali del Vicerè e perfino esclusivamente italiani gli avvocati patrocinanti nei processi giudiziari», racconta nel 1937, in «Gli italiani in Egitto», lo storico Angelo Sammarco. E «la lingua italiana era così diffusa che poteva considerarsi quale la sua seconda lingua tanto che fino a tutto il regno di Mohammed Ali, la nostra lingua era la lingua diplomatica dell’Egitto e la sola usata dal governo egiziano nei rapporti internazionali».
Non basta, scrive lo storico Francesco Surdich nel capitolo «Nel Levante» della «Storia dell’emigrazione italiana» (Donzelli), va a merito dei nostri «avere sviluppato una rete postale, gestita in lingua italiana, capace di operare in maniera capillare sia all’interno che all’esterno dell’Egitto» e l’«altrettanto rilevante» ruolo nell’organizzazione del sistema sanitario». Di più: «Su impulso del livornese Lorenzo Masi, che nel 1820 ne assunse la direzione, fu costituito ex novo, per finalità fiscali, il catasto...» Di più ancora: «Interamente in mano agli italiani fu anche l’amministrazione della sicurezza pubblica…» Antenata di quella che oggi, sul caso Regeni e altri, mette i brividi.
E quando l’architetto livornese Pietro Avoscani costruì al Cairo il Teatro d’Opera, uguale identico alla Scala di Milano sia pure in legno, la cosa fu sottolineata come «il punto culminante della influenza italiana». Fu anche l’inizio però, insieme con l’apertura del Canale di Suez finito in mani inglesi e francesi con l’Italia tagliata fuori, della decadenza. Già nel 1905, ricorda Incisa di Camerana, l’agente diplomatico presso il sultano e console generale al Cairo Giuseppe Salvago Raggi lamentava: «Nell’epurazione compiuta in questo ventennio, gli italiani vennero per la quasi totalità eliminati e la causa di ciò deve cercarsi nel sistema seguito per reclutarli».
Cioè? Mentre inglesi e francesi cercavano di occupare i ruoli più importanti e delicati «preoccupandosi del prestigio che ne veniva al loro Paese (...) l’Agenzia d’Italia invece oppressa dalle numerosissime raccomandazioni rinunciò in pratica a ottener buoni impieghi per gli italiani e si contentò di impiegarne molti». Traduzione: troppi fratelli, cugini, cognati, amici, parenti... Col risultato, scriverà in un rapporto a Roma lo stesso agente diplomatico e console generale al Cairo, che «le alte posizioni vennero occupate da francesi, da alcuni austriaci, da pochi inglesi e da pochissimi tedeschi, quelle più umili da italiani e le infime da greci». Un boomerang. Dal quale non riuscimmo più a riprenderci. Come sarebbe andata, se quell’occasione fosse stata gestita meglio?