Affari&Finanza, 21 dicembre 2020
L’Italia del “nonno padrone”
Altro che “padre padrone”, qui siamo al “nonno padrone”. Più della metà delle aziende familiari italiane – il 54% – ha un leader ultrasessantenne, per il 28% il capo ha più di 70 anni e in un centinaio di casi più di 80. Ma c’è dell’altro. Non più del 30%, sempre delle imprese familiari, sopravvive al fondatore, e appena il 13% arriva alla terza generazione. Il 49% degli imprenditori non si ritira mai e lavora usque ad finem, come il Papa. Il 18% delle aziende con il capo anziano aveva assicurato nel 2011 in un sondaggio dell’Istat di fare un passaggio generazionale nei cinque anni successivi, ma alla verifica nel 2016 lo aveva compiuto solo la metà, il 9%. Sono tutti elementi di una debolezza strutturale antica e radicata che può rivelarsi fatale quando, alla ripresa in calendario per il 2021 che dovrà essere robusta, le aziende dovranno battersi con tutte le forze per superare la concorrenza darwiniana che si scatenerà.
L’analisi Bocconi
Alessandro Minichilli, direttore del Corporate Governance Lab della Sda Bocconi, ha analizzato quasi seimila aziende di cui 4.800 familiari, e messo in fila i fattori di rischio pendenti in un report che suona come un allarme alla vigilia della più dura prova che l’industria italiana abbia affrontato dal Dopoguerra ad oggi. “Abbiamo considerato imprese di medie dimensioni, dai 50 milioni di fatturato in su, nelle quali la famiglia fondatrice ha ancora il controllo”, racconta Minichilli. “Per la moltitudine delle aziende più piccole, questi discorsi valgono in modo moltiplicato. Ma anche all’interno del nostro campione, abbiamo riscontrato elementi di criticità che preoccupano in una fase come l’attuale: intanto una quota troppo alta, oltre un terzo, è governata in modo monocratico da un amministratore unico o da un presidente esecutivo che tipicamente è ancora il “patriarca"”. Non basta: “Manca soprattutto una pianificazione corretta e lungimirante per la transizione generazionale”, aggiunge il docente della Sda Bocconi, “con effetti devastanti sulla performance e sulla continuità aziendale perché se il passaggio avviene bruscamente per cause naturali l’impresa spesso finisce nel caos, disorientata e spiazzata”.
Più grigi anche i profitti
Anche prima di una transizione traumatica, se si indugia troppo, gli effetti di un prolungamento eccessivo dell’età lavorativa del capo azienda sono negativi: se la crescita del fatturato è del 14,59% quando il leader ha 50 anni, questo valore scende al 14,15% quando al vertice siede un sessantenne e crolla all’8,42% se le redini sono in mano a un settantenne. Quanto agli utili, un leader “under 50” consegue un rapporto utili/equity superiore di 0,74 punti alla media del settore, un capo “over 70” ha viceversa un margine negativo di 2 punti sui competitor.
"Il discorso s’interseca con la presenza o meno di manager professionali, esterni alla famiglia, nei ruoli apicali”, dice Minichilli. “Intendiamoci, non è una regola assoluta che un professionista esterno faccia meglio di un giovane membro della famiglia, che può essere altrettanto bravo e preparato nonché motivato dal fatto di condividere la proprietà e facilitato dal conoscere la realtà dell’impresa: sa chi promuovere e chi retrocedere, conosce il mercato e gli interlocutori abituali, sa quali clienti seguire meglio”. Eppure un’iniezione di managerialità professionale ha, a conti fatti, un riscontro positivo: “Almeno, è provato empiricamente, occorre far entrare nel consiglio d’amministrazione qualche professionista esterno alla famiglia che valuti freddamente la gestione, eventuali operazioni sul capitale, fusioni e acquisizioni”. Il problema è che a volte il cda non c’è proprio.
L’efficacia del doppio
Una governance efficace e una managerialità professionale insomma sono decisive per le sorti dell’azienda e quindi del sistema Paese. “È come una partita a doppio di tennis: si vince quando si trova l’affiatamento sinergico fra manager e proprietario, come tanti casi in Italia insegnano”, commenta Bernardo Bertoldi, docente di Family business strategy all’Università di Torino. “Vede, una diffusa proprietà familiare delle imprese non è caratteristica solo italiana: lo è invece, come non si stancava di ripetere Mario Draghi quando era governatore di Bankitalia, la tendenza insistente a concepire la crescita nel chiuso della famiglia proprietaria”. In questo quadro, il passaggio generazionale, conferma Bertoldi, “non può essere improvvisato, ma va preparato nel decennio precedente e va accompagnato dal passaggio dimensionale dell’impresa”.
L’importanza che in questo processo ai proprietari si affianchino dei manager professionisti emerge dalla testimonianza sul campo di chi assiste gli imprenditori, specialmente piccoli, nelle loro operazioni aziendali e finanziarie. “Partiamo dal presupposto che un’azienda deve essere orientata alla crescita”, spiega Gianluca Santilli, senior partner di uno studio con 200 avvocati e commercialisti, LexJus Sinacta, che assiste molte piccole e medie aziende. “A parte le resistenze per motivi vari, la paura della burocrazia o anche, bisogna dirlo, il desiderio nascosto di mantenere opachi i bilanci per risibili quanto rischiosi vantaggi fiscali, denotano una scarsa cultura economica. Qualsiasi operazione finanziaria è vista con sospetto e timore, del tutto ingiustificati”.
Si arriva ai paradossi: “Fra le misure di ristoro varate del governo in questa durissima fase, c’è la creazione di un fondo gestito da Invitalia dotato di ben 4 miliardi dedicato alle Pmi che, se aumentano il capitale per reggere l’impatto della crisi, avranno lo Stato pronto a sottoscrivere una quota significativa dei bond emessi per l’occasione, fino al triplo dell’aumento stesso. Unica, logica condizione: Invitalia chiede di poter verificare ogni tre mesi l’andamento aziendale. Una norma più che accettabile: invece tanti imprenditori rifiutano l’aiuto perché non vogliono che si vadano a fare verifiche di sorta. Se siamo a questo punto, qualsiasi discorso su governance e competitività è ancora di là da venire”.