La Stampa, 21 dicembre 2020
Biografia di Isabelle Huppert
«Amo scegliere ruoli di personaggi fuori del comune, e poi renderli più normali possibile, perché sappiamo tutti che la tragedia e l’anormalità si nascondono sempre dietro la normalità». Isabelle Huppert spiega così le sue scelte interpretative, e poi aggiunge: «Recitare è un modo di vivere la propria follia». Prima di conoscerla, ero intimidito dalla sua personalità carismatica. Non aiutavano certo i ruoli che l’hanno resa celebre, caratterizzati quasi sempre da un’intelligenza gelida, che a volte rivelava elementi di malvagità. Sin dal primo incontro mi resi conto che Isabelle è una grandissima attrice anche in questo, e che l’immedesimazione con personaggi inquietanti nasce dalla volontà di comprendere e studiare, per poi individuare l’umanità che alberga all’interno di ogni persona, anche la più reietta e malvagia.
Era stato Michael Cimino a parlarmene con entusiasmo, spiegandomi che l’apparente freddezza cela passioni profonde e persino tormentate. Da grande artista quale era, lo aveva intuito ammirandola sullo schermo, e l’aveva imposta nei Cancelli del cielo ai dirigenti della United Artists, che non sapevano neanche chi fosse. Le affidò il ruolo della protagonista femminile Ella, una prostituta dal carattere tenace e malinconico: un personaggio indimenticabile che illumina un film grande e maledetto con una luce assolutamente inedita per il cinema americano. Pur essendo una regina del cinema europeo, ama sinceramente quello americano, anche se l’esperienza con David O’Russell sul set di I Heart Huckabees - Le strane coincidenze della vita è stata decisamente meno felice, e se dovesse individuare i registi con cui si è trovata maggiormente in sintonia direbbe Chabrol e Godard.
Da parte materna Isabelle discende da una delle sorelle Callot, un’istituzione nell’alta moda francese, e difende il suo approccio eclettico all’esistenza: «La vita è troppo breve», ripete, e non è certo casuale che suoni il piano e abbia inciso un album nel quale recita con la rockstar francese Jean-Louis Murat versi di Antoinette Des Houlières, autrice dimenticata del ’600. Si schernisce tuttavia quando viene definita un’attrice intellettuale: «Per alcuni non lo sono affatto e per altri - la maggioranza - ne rappresento invece l’emblema. Personalmente non so se lo sono, e forse non so neanche bene cosa significhi».
È nata nel XVI arrondissement di Parigi il 16 marzo 1953, ma sull’anno c’è un po’ di mistero: molti riportano il 1955, e a chi chiede delucidazioni risponde «su questo non vi aiuterò». Il padre Raymond era un ingegnere di origine ebraica, la madre Annick insegnava l’inglese ed era cattolica: fu lei a volere che Isabelle crescesse secondo gli insegnamenti della Chiesa di Roma, e a incoraggiarla a recitare. Ha fatto molta gavetta, e per un periodo ha diviso un appartamento con Isabelle Adjani. In quel periodo ha recitato in tv, ma poi ha scoperto la magia del teatro, mentre, parallelamente, diventava una protagonista del cinema mondiale. Il suo palmarès è impressionante: ha vinto due volte il premio come migliore interprete al Festival di Cannes e altrettante a quello di Venezia. Ha ricevuto 16 candidature ai premi César (record assoluto) vincendo due volte. Senza contare i 6 premi Lumière (altro record), i 7 premi Molière per il teatro, la candidatura all’Oscar per Elle di Paul Verhoeven e la vittoria del Golden Globe per lo stesso film.
Anche lista dei registi con cui ha lavorato è impressionante: oltre a Cimino, Godard e Chabrol, è diventata la musa di Maurice Pialat, François Ozon, Michael Haneke, Andrzej Wajda, Werner Schroeter, Hong Sang-soo, Brillante Mendoza, Hal Hartley e Mia Hansen-Love. Ed è anche una beniamina dei cineasti italiani: ha terminato da poco le riprese di un film con la regia di Michele Placido, ma in passato ha lavorato con Bolognini, Ferreri, i fratelli Taviani. Haneke voleva scritturarla per Funny Games, ma lei rimase sconvolta dal copione e rifiutò: «Ho sbagliato», dice ora, « me ne pento, ma per fortuna Michael ha continuato a scritturarmi e mi ha offerto il ruolo da protagonista nella Pianista, tratto dal testo di Elfriede Jelinek». È grazie a questo film che vinse uno dei due premi a Cannes.
È un peccato che in Italia non sia noto il suo lavoro sul palcoscenico: alcune sue interpretazioni sono memorabili, come quelle in Maria Stuarda, Le serve di Genet e La madre di Florian Zeller con cui ha recitato a Broadway. Per non parlare dei trionfi parigini con la Medea e con Edda Gabler di Ibsen. Non appartiene tuttavia a quella categoria di interpreti che ritiene il teatro superiore rispetto al cinema: «Penso che i film abbiano il ritmo della musica e dicano molto della vita, anche più del teatro», mi ha detto una volta, elaborando un tema che le è caro: «raccontano tanto rispetto all’invisibile, la lente della macchina da presa è come un microscopio che va oltre la superficie. È come esplorare un segreto: del regista, dell’attore, e quindi anche dell’universo».
Dal 1982 vive con il regista e scrittore Ronald Chammah, da cui ha avuto tre figli: Lorenzo, Angelo e Lolita, con cui ha recitato in 5 film. «Ho sempre pensato che la metafora precisa della recitazione», le ha spiegato. «è la cecità: ignorare il pericolo e fidarsi completamente». Quando parla di recitazione è ipnotica: «Non credo di recitare dei personaggi: i contorni sono sempre vaghi. Ho sempre impressioni sfuggevoli dei caratteri, e recito invece emozioni, sentimenti: ritengo che la recitazione sia simile alla pittura astratta». E non emana nulla di freddo quando confessa «fingiamo tutti di esser forti, ma poi, in un attimo, possiamo crollare. Almeno è così per me».