Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2020
Il variopinto tramonto dei miniatori
Padroneggiare una materia sino ad abbracciarla completamente da ogni punto di vista (artistico, storico, geografico, tecnico, collezionistico, eccetera) non è davvero cosa da tutti. Jonathan J. G. Alexander, storico della miniatura di fama internazionale, è tra i pochi studiosi in grado di offrire sintesi chiarissime e grandiose della prediletta ed aristocratica materia, e lo ha fatto anche di recente dando alle stampe nel 2016 un’autentica summa sulla miniatura italiana del Rinascimento, ora disponibile anche nella nostra lingua nell’edizione Einaudi curata da Fabrizio Crivello con la traduzione di Laura Zamparo.
Oltre ad essere splendidamente illustrato (con tutti gli esempi delle migliori pagine miniate prodotte in Italia tra il 1450 e il 1600), il volume di Alexander si presenta davvero esemplare nel modo di proporre e disporre la materia. Sollevandosi da terra come un drone, Alexander compie dapprima un volo sull’Italia del Quattrocento. Il punto di partenza è la Toscana, con il drone che si abbassa su Firenze, Siena e le altre città toscane per illustrare i singoli artisti e le opere da loro prodotte che ancora hanno la fortuna di essersi conservate. E con lo stesso criterio si visitano l’Italia centrale e meridionale (Roma, Napoli, la Sicilia, Urbino Perugia, la Romagna eccetera), l’Italia nord-orientale (Ferrara, Venezia, Padova, Udine, Verona, Mantova, Bologna, eccetera) e l’Italia nord-occidentale, dove le tappe sono Milano, Pavia, Genova, Torino, Parma, Piacenza, Cremona Bergamo e Brescia.
Finito il primo viaggio, si volta la gran pagina del tempo e ci si trova nel Cinquecento. Il drone di Alexander si rialza in volo per ripercorre di nuovo in lungo e in largo la penisola, registrando però un radicale cambiamento. L’invenzione della stampa a metà Quattrocento, che sulle prima non sembrò interferire con la produzione di sontuosi libri manoscritti e miniati, nel Cinquecento fece sentire i suoi effetti. Per tutto il XVI secolo, da Milano a Napoli, da Venezia a Roma (soprattutto) si continuò tenacemente a produrre libri more antiquo, scritti e decorati a mano, ma questa produzione andò inevitabilmente scemando sin quasi a dissolversi sul finire del secolo, travolta dalla modernità e dalla praticità dei volumi a stampa.
Esaurito il vasto panorama della storia e della geografia della miniatura italiana tra 1450 e 1600, Jonathan J. G. Alexander approfondisce nella seconda parte del testo alcuni aspetti fondamentali legati alle produzione delle miniature e dei libri miniati: i costi di produzione, le committenze, il commercio dei volumi, il rapporto tra i testi e le decorazioni, fino al grande “compromesso”: la decorazione dei libri a stampa con spettacolari miniature fatte a mano.
Su quest’ultimo aspetto val la pena di soffermarsi. I primi libri a stampa vennero prodotti in Italia a partire del 1465 e già attorno al 1480 gli stampatori attivi nel Bel Paese cominciarono a farsi concorrenza tra loro. Ai primi stampatori fu subito chiara la necessità di produrre volumi che apparissero il più possibile simili ai migliori esemplari manoscritti della tradizione, ovvero libri che disponessero di larghi margini, impaginazioni chiare e caratteri ben disegnati e, naturalmente, degli spazi necessari per accogliere le decorazioni rigorosamente dipinte a mano dai miniatori. Tali operazioni di stampa dei testi e di successive decorazioni miniate raggiunsero un tale livello di perfezione da rendere quasi indistinguibili i manoscritti dai volumi a stampa. Addirittura alcuni stampatori imprimevano i loro testi su fogli di pergamena che poi venivano passati ai miniatori e ai legatori: l’effetto mimetico era perfetto. È curioso apprendere però che tali prodotti ibridi (metà libri a stampa e metà libri miniati) venissero guardati con grande sospetto soprattutto negli ambienti delle corti. Federico da Montefeltro, signore di Urbino, assunse ad esempio Vespasiano da Bisticci con l’incarico specifico di vigilare che nella biblioteca di Palazzo Ducale non penetrassero libri a stampa, anche se miniati a mano. Si diceva che il duca si sarebbe letteralmente vergognato se nella sua “Libraria” personale – stracolma di manoscritti meravigliosamente scritti e miniati con la penna «sul cavretto» dai più grandi artefici del Quattrocento – fossero stati introdotti insidiosi “incunaboli” meccanici.
La produzione dei libri miniati seguì, anche nell’Italia del Rinascimento, una prassi divisa in tre tempi: il tempo dello scriba (o, nel caso, dello stampatore), il tempo del miniatore e il tempo del “cartolaio”.
Lo scriba (che poteva essere un religioso o un laico, ed alcuni divennero celebri per la loro velocità e precisione di scrittura), scrivevano il testo su fogli di pergamena preventivamente raschiati, tagliati, piegati e rigati. Poi, i fogli sciolti passavano nelle mani dei miniatori che erano quasi sempre abilissimi specialisti del settore, talvolta erano anche orafi, ma quasi mai coincisero con i pittori di maggior fama. Ed è per questo che i nomi dei miniatori, anche dei più grandi (parliamo di Attavante degli Attavanti, Francesco di Antonio del Chierico, Franco dei Russi, Girolamo da Cremona, Liberale da Verona, Giovan Pietro Birago e Giulio Clovio), dicono francamente assai poco anche al grande pubblico degli amanti dell’arte. I miniatori decoravano intere pagine, i capilettera, i margini laterali e i bas de page. Spesso agivano affiancandosi uno all’altro nel lavoro e si dividevano i fogli da decorare per ridurre i tempi di produzione, usando colori, pigmenti e dorature di tale spettacolare qualità che ancora oggi possiamo goderne i vividi risultati. Infine, per l’ultimo passaggio – ovvero la rilegatura dei fogli scritti e miniati – intervenivano i “cartolai” che confezionavano il libro.
Ma quanto costavano queste meraviglie nell’Italia del Rinascimento? Ovviamente cifre ingentissime (si parla di decine di migliaia di fiorini e ducati) e non è un caso che i committenti di questi lussuosi libri fossero in quell’epoca le famiglie più eminenti (i Gonzaga, gli Este, gli Aragona, i Medici, i Farnese, eccetera) e naturalmente il papa di Roma. E proprio la corte pontificia alimentò le ultime variopinte fiammate dell’arte miniatoria, con artifici mirabili come Giulio Clovio e pontefici “tosti” come Pio V Ghislieri.