Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2020
Le pandemie viste da Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi ha conosciuto direttamente una pandemia, il colera, nei quattro anni tormentati e ultimi del soggiorno a Napoli, dal 1833 al 1837, e ne ha fatto argomento di riflessione e di poesia. Oltre che di lettere accorate, come quella al «caro papà» del 30 ottobre 1836, dove informa Monaldo che «in una città così immensa e popolosa come Napoli» il colera ha provocato una grande «confusione». Si ricorda spesso, in questi tempi tragici, il suo invito alla «social catena» degli umani che il «verace saper» può tornare a riunire «contra l’empia natura» (La ginestra). Ma l’appello estremo di Leopardi a «giustizia e pietade» costituisce soltanto il motivo più noto di una riflessione ben più stratificata e profonda, che in qualche aspetto ci appare premonitrice.
Alle pagine 3657-3658 dello Zibaldone (11 ottobre 1823) Leopardi riflette sulle «migliori specie» animali, che «sarebbero le più rare, le più scarse nell’intrinseco numero». Ed essendo la specie umana «la sommità del genere animale, e quindi di tutte le specie e generi di esseri terrestri; ne seguirebbe ch’ella naturalmente dovesse essere di tutte le specie terrestri la più rara, e la più limitata nel numero e ne’ luoghi». Così non era, e ancor più oggi non è, visto che non c’è clima o ambiente terrestre che non sia stato colonizzato degli uomini. Così la specie umana, l’unica specie animale a occupare e a trasformare a suo vantaggio tutti i possibili habitat del globo, ha raggiunto quasi gli otto miliardi di individui. Secondo Leopardi vi sarebbe un rapporto inversamente proporzionale tra la tempra fisica dell’umanità moderna e la sua diffusione in ogni parte del globo, come variamente argomenta nei pensieri che raccoglierà nell’Indice del mio Zibaldone, redatto a Firenze tra l’11 luglio e il 14 ottobre del 1827, sotto la dizione «Malattie, debolezza corporale ec. prodotte dall’incivilimento, e dalla cultura delle facoltà mentali».
Vi sono due modi di leggere la riflessione leopardiana sulle epidemie. Sergio Givone ne ha fornito una, metafisica e me-ontologica, nelle pagine della sua Metafisica della peste (2012), nelle quali ha sollevato la «contraddizione spaventevole» che la peste evidenzia fra uomo e natura, presentando la natura come il male intrinseco per ciascun uomo, la sua apertura inevitabile al nulla, perché la natura, pur essendo l’«esistenza universale», «la totalità delle cose che sono», «si perpetua ed eternizza stritolando ogni singolo vivente». Un altro modo di leggere la visione leopardiana del colera, fisica e materiale, lo connette allo sviluppo della civiltà umana, dimostrando che esso va verso il male e il nulla nella sua folle spinta all’unificazione del mondo.
I versi 38-45 della Palinodia al Marchese Gino Capponi, composta sempre a Napoli nel 1835, saranno pure ironici, come l’intera palinodia, ma testimoniano di una riflessione salda in Leopardi ed espressa in diversi pensieri consegnati allo Zibaldone come quello sopra ricordato: «Auro secolo omai volgono, o Gino, | i fusi delle Parche. Ogni giornale, | gener vario di lingue e di colonne, | da tutti i lidi lo promette al mondo | concordemente. Universale amore, | ferrate vie, moltiplici commerci, vapor, tipi e cholèra i piú divisi | popoli e climi stringeranno insieme». La parola «cholèra» è presente soltanto nella Palinodia e come altre parole di uso comune (il walser, il boa, i pamphlets) è – lo ha ricordato Liana Cellerino (L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, 1997) – un hapax, un termine che non si ritrova in altri componimenti in poesia e in prosa, e neanche nello Zibaldone. «Un frammento lessicale estraneo e indigesto» che serve a connotare una forte polemica contro gli effetti nefasti di quello che Leopardi chiamava incivilimento e che oggi chiameremmo globalizzazione.
Il «vapor», unito alle «ferrate vie» e ai «moltiplici commerci», designa il supporto scientifico e tecnologico che ha permesso, nel secolo del vapore, di avviare, proprio negli anni Trenta dell’Ottocento con le navi a vapore e soprattutto con la rete ferroviaria, la grande rete dei commerci mondiali, emancipata dai limiti ambientali, testimoniata dal Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (1873). I tipi sono metonimia della «giornaliera luce delle gazzette» (vv. 19-20), «anima e vita dell’universo» (vv. 151-152). Accanto a commerci e gazzette Leopardi pone il «cholèra», allora epidemico in varie parti del mondo. L’avvicinamento tra i grandi simboli della modernità e una pandemia indica per Leopardi quanto le conquiste umane sul globo che «i piú divisi | popoli e climi stringeranno insieme» presentino aspetti contraddittori, e drammatici. Oggi si potrebbero sostituire il vapore, i giornali e il colera con gli aerei, internet e il covid-19. E si potrebbe riflettere, con Leopardi, sui danni che comporta per l’umanità tutta una globalizzazione eccessiva, aggiungendo però che la buona globalizzazione, con la sostenibilità ambientale nei trasporti, la condivisione del big data e i vaccini, può salvarci dalla deriva che – oggi lo sappiamo – colpisce tutta la biosfera. E che richiede con urgenza che la «social catena» si estenda a tutti gli esseri viventi, e alla natura nel suo insieme.