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 2020  dicembre 20 Domenica calendario

Spregiudicata Sanseverino

Una corposa tradizione storiografica ha insistito sul profondo cambiamento culturale oltre che politico verificatosi in Italia tra la prima e la seconda metà del Cinquecento, dopo il concilio di Trento: l’età di san Pio V e Sisto V, di Lepanto, dell’Inquisizione, di san Filippo Neri, della grande sistemazione teologica di Roberto Bellarmino, dell’apologetica storica di Cesare Baronio, dei gesuiti e dei cappuccini, del grande sforzo missionario nelle Americhe e in Asia, della cupola di san Pietro come simbolo del primato romano, di un rinnovato spirito devoto che si riflette negli umidi occhi rivolti al cielo delle statue dei santi sulle facciate delle chiese barocche. L’età della Controriforma, segnata da quel disciplinamento sociale e religioso in cui si è voluto vedere una modernità impegnata a controllare e se necessario reprimere pensieri e comportamenti difformi dalle norme imposte da poteri sempre più forti e autoritari.
Un quadro edificante, insomma, che già in passato è stato revocato in dubbio dalla stessa Fragnito, la più autorevole studiosa della censura ecclesiastica tra Cinque e Seicento, cui ha dedicato numerosi volumi che rappresentano altrettante pietre miliari. A fare da antecedente a questo libro è infatti quello sulla bella figlia del ricco e potente Alessandro Farnese, il «gran cardinale» nipote di Paolo III, Clelia, le cui inquietudini sentimentali – tra cui un presunto love affair con il cardinal Ferdinando de’ Medici – furono oggetto di scandali e pettegolezzi (Storia di Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma, 2013). Non da meno furono quelli che investirono allora Barbara Sanseverino, che non a caso sarebbe diventata una protagonista della Certosa di Parma di Stendhal.
Milanese di nascita ma discendente di un’illustre famiglia napoletana, Barbara si sposò nel 1564, appena quattordicenne, con il ricco e pio Giberto Sanvitale conte di Sala, allora quarantenne, cui portò la cospicua dote di 14mila scudi. «Donna veramente bellissima di tutte le signore di Lombardia», spigliata, affascinante, intelligente, colta, amante di musica, teatro e poesia, grande organizzatrice di balli e feste, «condimento d’ogni passatempo», la Sanseverino animò una spregiudicata vita mondana. Fu durante un soggiorno a Roma negli anni 70, nonostante il clima austero e penitenziale ereditato dal pontificato di Pio V, che l’affascinante nobildonna cominciò a «dare sfogo alla sua natura socievole e gioiosa», tale da sedurre anche il cardinal Farnese, cui ancora nel 1585, a 65 anni, si suggeriva di pensare alla salute astenendosi da eccessi sessuali. Ma fu soprattutto nelle feste di carnevale della corte ferrarese di Alfonso II d’Este, con «l’universal modo di vivere assai licentioso che ci si costuma», che la sua voglia di vivere la fece diventare «padrona» della corte e «cagione delle spese e dei disagi di tutti (…) a posta della quale, si va, si sta, si leva, si mangia, si giuoca». Era un incessante succedersi per settimane di banchetti, balli, scherzi, travestimenti, commedie, sbronze, spassi, amorazzi, bagordi e baldorie d’ogni tipo, con lo stesso cardinal Luigi d’Este dedito «a crapula et dameggiare». Anche nella rocca di Colorno, il suo «paradiso», dove infine si insediò lasciando il marito a Sala, la Sanseverino si dedicò alle feste, «a ballare e giorno e notte», a ruffianeggiare tra amanti clandestini, a compiacere gli svaghi di Vincenzo Gonzaga, figlio del duca di Mantova, a farsi «promotrice e protettrice di raduni licenziosi», allietati da letterati e musicisti, tra raffinati giardini e saloni che ospitavano dipinti di Mantegna, Raffaello, Tiziano, Leonardo, Parmigianino, Cranach, Giulio Romano, Correggio.
L’abbandono del tetto coniugale, la sfrenata mondanità e i debiti che continuò a contrarre per alimentarla, il trasformare la sua rocca in «una sorta di “casa d’appuntamenti” per nobildonne di facili costumi, principi e aristocratici della regione» non mancarono di irritare il marito, ma fu lei a chiedere nel 1584 l’annullamento del matrimonio, con il pretesto che esso fosse stato celebrato tra consanguinei. La morte di Giberto Sanvitale nel 1585 chiuse la questione, lasciando tuttavia un interminabile strascico di liti e processi sulla sua eredità, che avrebbero offerto pretesti alla volontà del signore di Parma e Piacenza Ranuccio Farnese di impadronirsi del feudo di Colorno, di sbarazzarsi della Sanseverino e dei suoi pericolosi legami con il duca di Mantova. 
A nulla valsero un nuovo matrimonio, la sollecitazione di aiuti e interventi, la difesa legale dei suoi diritti. Finì travolta dalla durissima repressione scatenata dal cinico duca contro numerosi esponenti della feudalità parmense, accusati di ordire una congiura per contrastare la sua intenzione di limitarne libertà e privilegi, di piegarli all’autorità del principe, di impadronirsi dei loro feudi. La Sanseverino, «che era nata Signora et voleva morire Signora», cercò dapprima di negare – contro ogni evidenza – le prove della sua complicità per raccomandarsi infine alla clemenza del duca, che invece la fece decapitare per prima nella teatrale «grande giustizia» del 1612, con il marito, il figlio, il nipote e altri esponenti di una nobiltà che aveva sempre mal tollerato l’insediamento in casa propria di una dinastia papale aliena.
Dal libro, e dalla felice verve narrativa dell’autrice, emerge uno spaccato sociale che inserisce una tumultuosa vicenda biografica in un fitto tessuto di problemi storici generali: la perenne conflittualità interfamiliare dell’aristocrazia, nel cui ambito morti e vedovanze scatenano un incessante pulviscolo di litigi e processi, contese ereditarie, cause dotali, questioni di confine, rivendicazioni di diritti feudali; le strategie matrimoniali e il ruolo fondamentale delle donne in tali vicende, di cui sono spesso protagoniste, ma anche vittime di una supremazia maschile che trova nella difesa dell’onore il pretesto di truci uxoricidi, quasi sempre impuniti (talora grazie al fattivo impegno di san Carlo Borromeo, disposto a dimenticare il suo austero zelo riformatore di fronte ai crimini nobiliari); la tutela di antichi privilegi e libertà da parte di un’aristocrazia sempre avversa al rafforzarsi dei poteri del principe; il persistere – al di sotto dei compunti modelli tridentini – di una sostanziale anomia nei comportamenti morali di ceti sociali protetti dal loro rango, quasi che esso rendesse immuni dalla giustizia divina anche le loro dissolutezze e i loro delitti (la stessa Sanseverino non sembra aver vissuto alcuna contraddizione tra le lascive esuberanze festaiole e i pellegrinaggi a Loreto). Ed emerge lo straordinario profilo di una donna che in più occasioni aveva ardito «varcare il ristretto perimetro che le norme sociali le avevano assegnato e che lei aveva ripetutamente oltrepassato».