Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2020
Abbado racconta Verdi
Il mio primo incontro con Verdi è stato da piccolo, avrò avuto sette o otto anni, quando i miei genitori mi portarono a vedere Aida, all’Arena di Verona. Non dovrei dirlo: fu una gran dormita. Salvo però che nella grandiosa scena del trionfo. La ricordo ancora, amplificata dal fascino dello sfondo del teatro antico, evocativo di una cultura lontana e vicina insieme. E probabilmente mamma e babbo – con una casa in provincia di Vicenza – avevano scelto di portare me e mio fratello, più giovane di tre anni, a quella scampagnata musicale estiva ben consapevoli che solo quel passo avrebbe colpito l’immaginazione di due bambini.
In casa non si ascoltava opera. Mio padre, Marcello, studiava tutti i giorni. E io mi infilavo sotto la coda del pianoforte, stavo lì incantato: Mozart, Debussy, il suono mi avvolgeva. Ma chi mi avvicinò davvero a Verdi fu Claudio, mio zio, che nel 1968 – da un anno direttore musicale della Scala – scelse Don Carlo per inaugurare la stagione, il 7 dicembre. E noi che allora abitavamo a Pesaro, dove il babbo era direttore del Conservatorio (e dunque immersi nel mondo rossiniano, perché la Fondazione Rossini già esisteva, con le prime edizioni critiche) risalimmo verso Milano. Ricordo il viaggio, a ridosso di Natale. Seguivamo una replica, non certo la prima, che tra l’altro si era svolta nel noto clima di contestazione. Io ero ospite di Claudio, nella casa di via Sambuco, vicino a Porta Ticinese. Ricordo che durante gli intervalli, con i cugini Daniele e Alessandra ci divertivamo a commentare le misesdel pubblico. Però avevo quasi quattordici anni, e quel modo nuovo di concepire l’opera mi segnò. Non solo per la figura del Grande Inquisitore, terrificante, interpretato da un gigante finlandese, Matti Talvela, o per la voce di Nicolai Ghiaurov, che cantava Filippo II. In Don Carlo sentii per la prima volta la forza di Verdi, e il modo nuovo con cui lo si poteva leggere. Mio zio era molto riservato, non amava le spiegazioni. Però in questa riservatezza conviveva in lui un forte aspetto ludico. Ad esempio, di quella prima volta, ospite a casa sua, ricordo che tenevano un ping pong in soggiorno. Oggetto insolito nell’appartamento di un musicista. Già negli anni precedenti, da bambino, avevo apprezzato certi pomeriggi domenicali, dove Claudio organizzava dei giochi, sul terrazzo, tipo mosca cieca o guardie e ladri... E tra i partecipanti c’erano Bruno Canino o Flavio Testi o Maurizio Pollini!
Dal 1972 il babbo era stato nominato direttore del Conservatorio Verdi di Milano, che avrebbe guidato per un quarto di secolo. La nostra grande famiglia si riuniva per il pranzo festivo a casa dei nonni, che abitavano in viale Lazio: cucina siciliana, della nonna Maria Carmela (detta affettuosamente da Claudio “Linuzza”) e lunghe chiacchierate sulla musica, in particolare sulla didattica. Nonno Michelangelo aveva dedicato tutta la vita al violino, aveva studiato con Enrico Polo, a sua volta allievo di Joachim, nonché cognato di Toscanini. Ricordo un contrabbasso, parcheggiato in un angolo della sala, dove un tempo si tenevano prove di musica, il superstite di quella magnifica Orchestra d’Archi di Milano che il nonno aveva fondato, e che aveva girato il mondo, proponendo musica barocca, da pionieri. Io e il cugino Claudio, figlio di Luciana, eravamo i più grandi tra i nipoti, dunque gli unici che riuscissero a tenere in piedi lo strumento e a pizzicarne le corde, tra una portata e l’altra degli abbondanti menù. Il copione restava sempre lo stesso, eravamo una famiglia organizzata: pranzo, giochi, partita di calcio in tv. Claudio faceva capolino solo quando giocava il Milan, di cui è sempre stato tifoso. Io no, tifo Lazio, causa un nonno materno che fu presidente della squadra, negli anni Cinquanta.
Nello studio di mio zio, in mezzo a infinite partiture, ricordo campeggiava una sirena – non la figura mitologica, lo strumento – che aveva utilizzata nella Prima “Kammermusik” di Hindemith. Studiavo in Conservatorio, volevo fare il direttore, e da lui ebbi consigli diretti, in particolare in un paio di occasioni. Una quando stavo preparando l’esame di ammissione per un corso a Venezia, con Franco Ferrara, e analizzammo insieme alcune partiture. Avevo 21 anni. Era geloso del suo mestiere? Non credo. Era anche generoso. La sua biblioteca restava sempre aperta, e non solo per me. Le partiture con le sue indicazioni a disposizione. Ma la vera scuola diventarono soprattutto tutte le prove alla Scala, che grazie a un accordo tra mio padre e il sovrintendente Paolo Grassi, erano aperte agli studenti di direzione del Conservatorio. Così si imparava, sul campo, senza mediazioni, da quel palco di sinistra di proscenio.
Il mio debutto come direttore d’opera è stato un titolo verdiano: Simon Boccanegra, 1978, allo Sferisterio di Macerata. Avevo di fronte un cast imponente, con Renato Bruson, Ilva Ligabue e il grande basso Cesare Siepi. È curioso raccontare, come arrivai su quel podio, perché appunto il corso veneziano di Ferrara includeva un paio di saggi pubblici di noi studenti. A me il Maestro assegnò un brano, l’ultimo, il Verdi della Sinfonia dalla Battaglia di Legnano. All’uscita mi trovo recapitato un biglietto, firmato da Giuseppe Pugliese, il grande wagneriano e mahleriano, presente all’esecuzione, che mi scrive: «Allo Sferisterio stanno cercando un direttore per il Simone...» Fu uno choc. Mi immersi nello studio. Suonavo e risuonavo la partitura, mi piaceva follemente. Così iniziò la mia avventura nelle opere di Verdi, che avrei poi portato in tanti teatri di tutto il mondo, dal Metropolitan a Vienna a Shanghai, e che oggi mi vede direttore musicale del Festival Verdi di Parma, dove ai quindici titoli che ho in repertorio sto aggiungendo la riscoperta delle versioni in francese, preparate dal compositore per farle debuttare a Parigi.
Ma accanto al Verdi di Claudio, nei miei anni di apprendistato, un’altra è stata la lezione concreta, di cui ancora oggi faccio tesoro: quella di Carlos Kleiber. In quegli anni alla Scala dirigeva il Rosenkavalier, La bohème, ma anche Otello e a Firenze La traviata, che andai a seguire. Per un’altra singolare coincidenza, prendevo lezioni private di inglese, a titolo gratuito, da sua sorella, Veronica. Immancabile coi suoi grembiuloni grigi, nell’appartamento di corso di Porta Romana, dove abitava. Lo parlava perfettamente, essendo di mamma americana. Al di là dell’inglese, lei continuava a insistere: «Tu devi farti un armadietto, con tutti i tuoi materiali d’orchestra. Così fa mio fratello e prima così faceva mio padre, Erich». Capivo, certo. Ma avrei davvero compreso a fondo il significato di quell’“armadietto” anni dopo, nel 1993, quando mi trovai a Monaco a dirigere La traviata e sui leggii gli orchestrali avevano ancora le parti con le indicazioni di Kleiber, che l’aveva anche incisa con loro. Non le aveva date a un copista, come facciamo tutti, ma le aveva scritte una per una, di suo pugno. Con una minuziosità di dettagli incredibile, che faceva sì che quell’ottima orchestra, anche alla sessantatreesima recita de La traviata suonasse esattamente il diminuendo a quattro «pppp», come voleva Verdi. Oppure tutte le gradazioni di nuances, che restituivano un suono più sfumato, meno militare. Con emozione scoprii i colpi d’arco di Kleiber, ancora secondo la vecchia scuola europea, cioè con le arcate volutamente non cambiate contemporaneamente nelle sezioni, in modo da ottenere un effetto complessivo di legato migliore. Per frasi ampie. Di solito le associamo alla Mitteleuropa, ma appartengono anche a Verdi. L’amplissimo respiro dei Vespri siciliani non ha nulla da invidiare a Schubert o a Wagner. E conferisce molta maestosità alla sua scrittura, persino in titoli così fulminanti, come Attila.
Ciascuna delle sue opere rappresenta un unicum. Ciascuna è inconfondibile. Tuttavia tra esse affiorano rimandi: Luisa Miller, Stiffelio, Rigoletto e La traviata, corrispondono ad esempio al ritratto, in pittura, per l’intimo scavo psicologico dei loro personaggi. Ma i legami sono evidenti anche tra titoli distanti molti anni: come Ernani, che ho diretto in tre edizioni, e che anticipa Il trovatore, il quale poi finisce in quella dal titolo che sappiamo non si può pronunciare... (“L’opera innominabile”). La “tinta” è uno dei concetti che fanno parte della tecnica compositiva di Verdi: il termine l’aveva coniato lui stesso, con sintesi geniale. Ogni opera ha una tinta. Ma nel concreto, questo termine corrisponde a scritture diverse. Ad esempio, in Macbeth tinta vuol dire ritmi ossessivamente ripetuti, perché ossessive sono le manie dei due protagonisti. Tinta è qui l’uso di semitoni melodici, di terze minori melodiche e armoniche, dove tre terze minori sovrapposte formano una settima diminuita, un accordo usatissimo da Verdi. Ma qui particolarmente ricercato, perché consente di modulare molto rapidamente ad altre tonalità, corrispondendo ai repentini cambi d’umore dei due protagonisti. La loro instabilità di carattere diventa instabilità musicale.
Parla a tutti Verdi, perché ha uno stile molto diretto, emotivo. E parla di tutto, dal livello più alto alle cose più semplici e quotidiane. Ma sempre mantenendo un pensiero intellettuale e musicale solidissimo. Ed è questo a creare una tinta diversa, per ogni opera. Geniale come l’altro concetto estetico, che lui conia: «parola scenica». Detto così, banalmente significa la parola messa in risalto, chiave dell’azione. Ma i mezzi con cui Verdi ottiene questa messa a fuoco, appaiono di volta in volta diversissimi, di assoluta libertà, senza limiti alla fantasia. Altri, ad esempio, avrebbero fatto tacere l’orchestra, per sbalzare la parola: lui sperimenta il contrario. Prendiamo il finale del primo atto di Macbeth, quando Banco pronuncia la frase terribile, «È morto assassinato il re Duncano». Finché non si arriva al nome del re, le armonie degli archi stanno discrete, sottese, in tensione certo, ma nulla al confronto dello scoppio di timpani e grancassa che esplode su: «Duncano». Lì non sentiamo solo il nome, ma qualcosa di emotivamente più profondo. E quella è la parola scenica.