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 2020  dicembre 20 Domenica calendario

La lezione di Brasilia

La città ha le ali aperte. Vista dal finestrino, prima dell’atterraggio, sembra l’ombra dell’aeroplano su cui stiamo viaggiando. E in qualche modo è proprio così che Brasilia è stata creata, sessant’anni fa: planando nel mezzo dell’entroterra brasiliano, dove prima di allora non c’era nulla se non l’abbondanza tropicale del cerrado, la savana del Sud America.Nata tra il 1956 e il 1960, la città che sostituì Rio de Janeiro come capitale della Repubblica federale è l’opera congiunta di un urbanista, Lucio Costa, e un architetto, Oscar Niemeyer. Consacrata dall’Unesco nel 1990 come Patrimonio dell’umanità, Brasilia vive nella nostra immaginazione come un simbolo, e non soltanto per la sua forma alata che si scorge dal cielo. Potremmo dire che oggi rappresenta una delle incarnazioni più compiute dello Zeitgeist del Ventesimo secolo – con le sue speranze, i suoi splendori e le sue ingenuità.
L’arrivo, a suo modo, è sempre memorabile, anche in queste settimane rarefatte di pandemia. Come sotto una gigantesca pensilina, l’aeroporto di Brasilia è uno tra i pochissimi al mondo a non avere pareti. Grazie a un clima così mite che basta un tetto per proteggerci dagli elementi, ci muoviamo in un ambiente che è sempre, di fatto, all’aria aperta. Ma una volta usciti dal terminal, le impressioni cambiano. Bastano poche ore trascorse in città per accorgersi dei difetti strutturali di questa metropoli utopica.
Il problema forse più evidente di Brasilia è che il suo disegno sembra privilegiare un tipo molto particolare di essere umano: l’automobilista. L’asse principale della città, l’Eixo Monumental, è lungo oltre 15 chilometri, ma quando lo attraversi ti accorgi che in alcuni tratti mancano persino i marciapiedi. Mentre oggi le municipalità di tutti i continenti fanno a gara per rendere le strade più sicure per chi si muove a piedi o in bicicletta, i rombi e gli stridori di motori e frenate – costanti della vita di Brasilia – ci ricordano di quando il futuro nel Novecento fosse inestricabilmente associato alle quattro ruote. Le arterie automobilistiche definiscono lo spazio di Brasilia, mentre i suoi edifici si trovano a distanza, dispersi lungo ampie spianate. Certo, i capolavori di Niemeyer ci consolano con le loro curve che, come scriveva il progettista, «troviamo nelle montagne, nelle onde del mare, nel corpo della donna che amiamo». Ma la mancanza di un fronte urbano tradizionale ha reso la città socialmente più povera. Mancano spazi pubblici – quel che esiste appare di risulta – e le strade hanno smarrito la loro storica vocazione civica di luoghi di incontro e dialogo: sono rimaste cruda infrastruttura.
C’è poi un aspetto ancora più sostanziale, che riguarda l’intima programmazione della città. In una delle mie prime visite, un giovane ingegnere del posto che faceva parte della nostra delegazione si lasciò andare a una battuta: «Sapete che cosa non funziona davvero in questa città? Il distretto del caffè espresso è lontano da quello dello zucchero». Dietro questa storiella scherzosa, si svela uno dei limiti fondamentali del Plano piloto e dei principi di pianificazione del Movimento Moderno. Ovvero la rigida divisione delle funzioni urbane in zone dedicate, determinate a tavolino. Questa dogmatica adozione dello zoning soffoca sul nascere le possibilità di una crescita urbana organica. A Brasilia può capitare di ritrovarsi ad alloggiare in quartieri assolutamente monofunzionali: per esempio quello composto quasi soltanto di hotel, e pertanto privo di vita durante le ore diurne.
Brasilia non abbraccia la complessità ma la respinge – come se la città potesse essere ridotta alla formulazione di un diagramma. Una metropoli non può obbedire a gerarchie e ordini predefiniti. Assomiglia invece a una rete, in cui tutti gli elementi sono collegati tra di loro. Tentando di ridurre quella complessità, molti progettisti del passato hanno impedito lo sviluppo dei caratteri più stimolanti dell’esperienza urbana: quelli legati alla spontaneità.
Dobbiamo quindi considerare Brasilia una città perduta, vittima dei sogni interrotti del Secolo breve? Per fortuna no. Più ti familiarizzi con i suoi abitanti, più ti accorgi di come, nel tempo, la vita riesca a prendere il sopravvento. Le pousadas, piccoli alberghi a gestione familiare, negli ultimi anni hanno iniziato a spuntare un po’ ovunque: portando i turisti fuori dal recinto della zona degli hotel. Mentre altre piccole iniziative che potrebbero essere definite di “agopuntura urbana” portano un piacevole caos nella rigida maglia modernista.
Credo che oggi uno dei nostri doveri come progettisti dovrebbe proprio essere quello di accelerare dinamiche di questo tipo. Come abbiamo scoperto in questi mesi trascorsi nella morsa del Covid-19, allargare marciapiedi e creare piste ciclabili può fare la differenza nel modo di vivere una città: un po’ di vernice a terra può permettere la riprogrammazione di intere aree urbane. In un’ottica di medio periodo, a Brasilia potremmo pensare a realizzare nuovi quartieri che conservino l’impianto di base del Plano piloto, promuovendo però un maggiore mix funzionale e nuove dimensioni di complessità. In questo senso, rendere più flessibili le regole che stabiliscono le destinazioni d’uso dei lotti diventa fondamentale. In altri casi possiamo intervenire sui confini tra spazio fisico e digitale. Usando in modo anonimo i dati provenienti dalle reti di comunicazione, per esempio, possiamo interpretare meglio le esigenze locali, così da poter promuovere processi di riappropriazione dal basso della città. Le piattaforme digitali di partecipazione pubblica possono servire a incentivare lo sviluppo organico di una metropoli capace di assomigliare a un’"opera aperta”, e non a uno scheletro calato dall’alto.
La lezione di Brasilia deriva precisamente dai suoi limiti, ed è fondamentale per molti altri luoghi al mondo. Come architetti dobbiamo resistere alla tentazione di riempire tutti gli spazi del foglio, e lasciare invece il più possibile margini vuoti, spalancando i nostri progetti alla partecipazione dei cittadini. Dobbiamo lavorare per un’architettura che, alla pari di quanto avviene nel mondo dei software informatici, sappia davvero essere “open source”, integrando i contributi di molte mani.
Mentre l’aeroplano decolla e l’ombra alata di Brasilia scompare tra le curve del cerrado, mi torna in mente una frase di Le Corbusier. Il grande architetto svizzero, tra i più influenti del Novecento, aveva contribuito a sviluppare i principi della pianificazione moderna, proprio quelli da cui è nata Brasilia. Tuttavia, alla fine della sua carriera, sembrò ricredersi. In una delle ultime interviste, al giornalista che gli chiedeva conto di alcuni suoi progetti che non erano riusciti nel tempo a rispondere a molteplici istanze sociali, rispose magnanimo: «L’architetto ha torto: è la vita che ha ragione».
Ricordiamocelo sempre quando prendiamo in mano la matita: che sia per progettare un edificio, un quartiere – o un’intera città.