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 2020  dicembre 20 Domenica calendario

Caliphate, l’inchiesta che imbarazza il New York Times

Quando una storia è «troppo bella per essere vera», molto spesso vera non è. Una regola aurea del giornalismo, soprattutto ai tempi di internet, oggi fa una vittima illustre: il New York Times ha dovuto ammettere di aver pubblicato un reportage basato su fonti fasulle, ha chiesto scusa per non aver rispettato gli standard di accuratezza e verifica per cui la testata americana va famosa nel mondo, e ha restituito il prestigioso Peabody Award che aveva vinto con quella “mezza bufala”.
Al centro dello scandalo c’è Caliphate, un podcast in dieci puntate sugli orrori dell’Isis in Iraq e in Siria, pubblicato nel maggio del 2018 e acclamato all’epoca come la definizione stessa del «moderno New York Times »: «Giornalismo rigoroso, ambizioso, tosto, combinato con uno storytelling di prima qualità – lo descriveva il vicedirettore Sam Dolnick – Portiamo la nostra audience in posti dove non è mai stata, con una trasparenza mai avuta finora».
Peccato che l’audience continui a non essere mai stata in molti dei posti descritti da Caliphate, perché non esistono. E che per avere trasparenza su questa storia ci siano voluti due anni, molte inchieste e alla fine una gran dose di coraggio. Due giorni fa il direttore Dean Baquet si è fatto intervistare, sempre in podcast, per spiegare come l’intero giornale – a partire dalla direzione e dalla reporter di punta che firmava l’inchiesta, Rukmini Callimachi – sia incappato in un “genio della truffa”. Il protagonista di Caliphate è Shehroze Chaudhry, un presunto “foreign fighter” pachistano-canadese scovato da Callimachi sui social media.
Chaudhry le ha raccontato di essere stato addestrato in Siria nel 2014 e di aver partecipato ad atroci missioni. Nella quinta puntata di Caliphate,racconta nei dettagli come abbia ucciso un uomo a coltellate nel cuore, e descrive le torture dell’Isis. Per Callimachi le confessioni di Chaudhry erano un «dono» perché davano a lei e al Nyt la storia che nessuno era riuscito ad avere: un racconto in prima persona. Fino ad allora, dice lei stessa, nessuno dei terroristi intervistati era davvero «protagonista»: «una cosa davvero frustrante». C’erano punti deboli nella storia, ammetteva. Ma alla fine si era trovato il modo di dare spiegazione a tutto, si erano scovate fonti che rendevano tutto «plausibile».
Ora Baquet ammette che la volontà di rendere vera quella storia ha superato l’accuratezza degli sforzi per capire se lo fosse realmente. Un po’ perché il format del podcast era tutto nuovo e anche gli standard e le procedure di verifica non erano sufficientemente testate. Ma molto perché al centro c’era una giornalista superstar, la cui fama garantiva di per sé affidabilità. Qualche campanello d’allarme con Callimachi c’era già stato: i colleghi esperti di Medio Oriente la giudicavano troppo spregiudicata. Ma la sua stella accecava i vertici del giornale. E dopo Caliphate era ancora più abbagliante.
Così, quando nel 2019 Chaudhry è finito sotto inchiesta in Canada e ha cominciato a smentire tutto quel che aveva raccontato al New York Times, fino a finire in galera per aver millantato la sua militanza (compresi i viaggi in Siria), c’è voluto un anno al Nyt per ammettere l’errore. Nel frattempo Callimachi è stata messa “a riposo” e ora è stata definitivamente allontanata dalla copertura del terrorismo. La decisione di “ritrattare” il reportage è arrivata dopo mesi di inchieste dei giornalisti investigativi interni che hanno appurato le molte falle di Caliphate, una storia davvero «troppo bella per essere vera».