Corriere della Sera, 20 dicembre 2020
Intervista a Giovanni Allevi
L’attrazione per quel pianoforte, chiuso a chiave dentro a una stanza, ha segnato il suo percorso. «Provengo da una famiglia di musicisti – racconta il compositore e pianista Giovanni Allevi —. Mio padre era clarinettista, mia madre cantante lirica, erano entrambi anche insegnanti, ma per proteggermi dai pericoli derivanti da un’educazione esclusivamente musicale avevano nascosto quello strumento: non potevo neanche toccarlo».
Perché?
«Sapevano che non è un mestiere sicuro, è precario, può crearti ansie e, magari, non ti permette di farti una famiglia. Avevano paura per me, però io, a 5-6 anni, un giorno trovo la chiave della porta e finalmente me lo vedo davanti. Alzo il coperchio della tastiera e comincio a immaginarne i suoni... Insomma, il mio incontro con la musica è nato all’insegna di un divieto, che ha scatenato in me un desiderio immenso».
E infatti, giovanissimo, si è diplomato prima in pianoforte poi in composizione.
«Ho trascorso vent’anni in Conservatorio, un tempo talmente tanto lungo da rendermi conto di quanto la creatività possa essere influenzata dal peso delle correnti musicali e dalle aspettative del mondo accademico».
Inoltre ha sentito la necessità di laurearsi anche in filosofia: perché?
«La filosofia mi ha dato il coraggio di prendere le distanze da quel mondo accademico, per rincorrere una scintilla, una luce di verità nascosta tra le pieghe dell’esistenza quotidiana».
Quell’esistenza che ora racconta con gli artisti di strada, nella docu-serie «Allevi in the jungle» in onda da domani su RaiPlay.
«I cosiddetti busker sono visionari, ribelli, artisti che invece del palcoscenico hanno scelto la strada rifiutando gli stereotipi di cui siamo tutti impastati, a cominciare dall’agognata sicurezza dell’impiego fisso. Loro inseguono scintille interiori con coraggio per recuperare lo sguardo incantato del bambino che è in tutti noi. Il mio debutto, come conduttore di una serie tv, nasce proprio dall’intento di condividere il loro sguardo incantato e filosofico sul mondo».
Un viaggio itinerante tra storie di vita, musica e arte.
«Con questa docu-serie voglio dimostrare che la vera creatività, il reale spirito innovativo nascono dalla strada e non dall’ambiente protetto e ovattato della torre d’avorio dell’accademia».
Un obiettivo nato dai suoi burrascosi trascorsi con il mondo accademico?
«Assolutamente sì. È necessario spalancare le porte di queste torri d’avorio e ritrovare il contatto con la realtà. Usciamo in strada, scriviamo musica per toccare il cuore della gente. La grande scoperta è che i “busker”, nella loro disciplina, sono dei virtuosi maniacali. Provengono da scuole molto severe, ma hanno scelto di essere liberi dalle pressioni didattiche e in questo mi sono rivisto in loro, fino a invidiarli: loro sono felici, sereni, raggianti».
Come si spiega le numerose critiche che lei ha ricevuto come compositore?
«I giudizi distruttivi non aiutano nessuno, e ne ho ricevuti tanti che mi hanno ferito profondamente, fino ad aprirmi le porte della psicoterapia. Tuttavia oggi considero quelle ferite come medaglie: una sia pure dolorosa conferma dello spirito autentico e innovativo che mi ha sempre animato. Se insegui il nuovo, devi prepararti alla battaglia. E questo è il tempo del cambiamento, è il tempo degli eroi».
Si sente un eroe?
Ride: «Certamente! D’altronde anche mio padre, per tanti anni, è stato il mio più grande detrattore e non accettava che io scrivessi musica, lo riteneva un affronto nei riguardi dei grandi compositori del passato. Però, quando poi sono stato criticato dagli altri, è diventato il mio strenuo difensore».
E sarà stato contento anche del successo da lei riscosso.
«Ovvio. Tuttavia io mi sento, in parte, incompreso, ma devo portare avanti la mia missione, non posso darla vinta a chi nutre su di me altro genere di aspettative. Forse un giorno mi butterò a piene mani nella vita, liberandomi di tanti legacci».