Corriere della Sera, 20 dicembre 2020
Intervista all’avvocata della famiglia Regeni
Dice con pudore che Giulio è diventato un pensiero costante, da quando alle 7 e mezza si sveglia. Dice anche che in casa non tiene foto sue («ne ho tante ma stanno nei vari faldoni dell’inchiesta»), poi si corregge, incapace a mentire, e confessa di aver appeso un poster di Mauro Biani, con Giulio trasfigurato in una collina verde, su cui giocano dei bambini guardando una colomba che vola. «Mi capita di sognarlo, sì. Sempre felice, in quelli che immagino i suoi posti, per esempio a Duino, tra Trieste e Monfalcone, lungo la passeggiata cara a Rilke».
Nella dolente tragedia di Giulio Regeni, c’è una donna che non l’ha mai visto né conosciuto ma lo spirito di lui le si è conficcato nella vita come un dolore e un dovere. Si chiama Alessandra Ballerini, avvocato votato alla difesa dei diritti umani, genovese, 50 anni appena compiuti, gli ultimi prevalentemente dedicati al primo civile italiano torturato e ammazzato all’estero in tempo di pace. Di lei esistono solo dichiarazioni riguardanti il caso Regeni. Per il resto, sempre di lato, un passo indietro ai familiari. «Se non ci fossero stati loro, papà Claudio e mamma Paola, saremmo ancora all’incidente stradale dove ha perso la vita un ragazzo di Fiumicello, provincia di Udine. Prima versione dell’Egitto e fine della storia».
E invece Giulio continua a fare cose, anche se ormai sono quasi cinque anni che l’hanno straziato. Continua a farne grazie alla forza ostinata e instancabile di tre persone. Le prime due sono proprio i genitori: Claudio, pensionato, e Paola, ex insegnante. La terza è lei, Alessandra, avvocato da battaglia, difensore dei deboli (dai migranti alle donne maltrattate ai senza dimora) e adesso guerriera legale di una causa data per persa mille volte e mille volte riacciuffata prima che venisse inghiottita nelle sabbie mobili della convenienza diplomatica. Se il Parlamento europeo si è finalmente deciso a votare una risoluzione per pretendere dall’Egitto la verità sull’atroce fine di Regeni e la consegna all’Italia dei suoi assassini (e insieme a chiedere l’immediata liberazione di Patrick Zaki, lo studente egiziano adottato da Bologna, non per caso gemello di Giulio per età e passione civile), il merito è di quelle tre persone. Se ad aprile si celebrerà a Roma il processo a carico dei quattro ufficiali del Cairo che avrebbero rapito e per nove giorni torturato fino alla morte un ragazzo che era stato mandato lì dall’Università di Cambridge per una ricerca sui sindacati, il merito è ancora e soltanto di quelle tre persone. Per due di loro, i genitori, è una questione di sopravvivenza a un lutto insostenibile: giustizia, almeno quella, per un figlio bellissimo e perduto. Per l’avvocato Ballerini, non è più un lavoro, posto che lo sia mai stato: anche per lei, calarsi nel pozzo dove è stato precipitato Giulio e fare luce su una pena indicibile, ricostruendola stazione per stazione come in un calvario, è diventato qualcosa che va al di là dell’impegno professionale. «Parliamo di una storia come non ce n’è. Quando hanno fatto ritrovare il cadavere, il 3 febbraio 2016, dopo nove giorni dove l’hanno sfigurato, la madre l’ha riconosciuto dalla punta del naso. Capisce, la punta del naso».
Quando è cominciata per lei questa storia come non ce n’è?
«Il 31 gennaio mi ha chiamato una grande amica di Giulio, preoccupatissima. Faccio qualche telefonata, contatti con politici e giornalisti per provare a capirci qualcosa. Poi mi cercano i genitori, che erano già al Cairo. Accolgo la loro richiesta e da allora non ci siamo più lasciati. Ricordo un collega che mi disse: difensore dei Regeni, sarai contenta… Forse lo faceva per gentilezza, ma trovai molto stonata la parola contenta».
Poi è diventata una di famiglia.
«Loro non sono la mia famiglia né io la loro figlia. Nessun transfert. Certo non sono dei clienti, ma io non considero nessuno un cliente. Li assisto, accompagno il loro viaggio. Ecco, abbiamo imparato a volerci bene: condividere tante emozioni nello stesso momento è una forma d’amore. Ridiamo anche, sa? Un po’ di ironia allenta la tensione. Abbiamo dato dei soprannomi in codice ai vari personaggi che ci siamo trovati sulla strada: Cicciobomba, i Magnifici 7, la Bionda, Sancho Panza, ma non mi chieda a chi corrispondono».
Che persone sono, i Regeni?
«Sono due esseri straordinari e perfettamente complementari. Sanno benissimo che niente colmerà il vuoto di Giulio. Ma un’altra cosa sanno: che non vogliono adesso targhe nelle vie. Non è ancora il momento della memoria. Questo è ancora il momento della lotta. Come per la scarcerazione di Patrick Zaki, ma è meglio non dire perché temo che ogni volta che il suo nome viene accostato a quello di Regeni la sua situazione rischi di peggiorare».
E lei perché lotta?
«Perché mi farebbe male assistere inerme a un’ingiustizia. Provare a riparare dei torti è una cosa che dà senso al vivere. E poi Giulio era Giulio. Dolce, educato, cittadino del mondo, aveva studiato ovunque, dal New Mexico all’Inghilterra. Ed era sveglio. Quella era la terza volta che andava in Egitto. Conosceva i pericoli. No foto, perché magari riprendi un obiettivo sensibile e ti fermano subito. Mai due volte con lo stesso tassista».
Perché proprio lui, allora?
«È la domanda che ci tormenta. Metti insieme tanti tasselli ma il quadro non torna mai. I colleghi del Cairo me l’hanno detto tante volte: smettila o diventi pazza, tu sei nativa democratica, qui la vita conta zero, eliminare qualcuno non ha lo stesso valore come da voi, e poi il regime è paranoico, vede spie dappertutto, elimina tre o quattro persone al giorno magari giusto per un sospetto, e Regeni era sospettabile, raccoglieva informazioni sui sindacati governativi e indipendenti, e cosa vuoi che interessi se lo faceva per studio o perché lavorava per qualche nemico, nel dubbio lo cancellano».
Prima di cancellarlo, però, sono passati nove giorni. Possibile che il nostro governo non sia riuscito a liberarlo prima?
«Il presidente del Consiglio era Renzi, in buoni rapporti con Al Sisi, il comandante in capo egiziano. In un’audizione parlamentare dirà di aver saputo della sparizione di Regeni il 31 gennaio, sei giorni dopo. Mi pare poco credibile, e se fosse vero sarebbe ancora più grave. Torniamo sempre ai rapporti di convenienza, agli accordi economico-militari, armi in cambio di soldi. Come l’ultimo: a noi un miliardo di dollari, a loro 6 fregate, 40 jet, un satellite a scopi bellici, più i sistemi di spionaggio. E questa è proprio pazzesca: gli vendiamo gli strumenti per individuare le persone che poi catturano e torturano grazie a noi».
La cosa che le ha fatto più male in questi anni?
«Sono tante. Quando il premier Gentiloni rimandò al Cairo l’ambasciatore Gianpaolo Cantini dopo averlo richiamato. La non risposta ai genitori di Giulio di ritirarlo adesso. Ma su tutte il pensiero che più angoscia i signori Regeni è che cosa deve aver provato loro figlio quando ha realizzato che non ne sarebbe uscito vivo, che l’avevano abbandonato e mai più nessuno sarebbe venuto a salvarlo».
L’ingresso nella stanza numero 13, quella dei supplizi, in una delle caserme del servizio segreto civile egiziano.
«Non voglio essere costretta a vedermelo dentro quella stanza. Un paio d’anni fa, ero al Cairo per delle indagini, quando mi prelevano e mi portano in una camera con una scusa di un problema sul passaporto. I poliziotti mi stanno addosso, mi fumano in faccia, sono grossi e brutti, hanno gli occhi come se fossero drogati, parlano arabo in modo concitato. Venti minuti dura il trattamento, li ricordo uno per uno, e sono uscita senza un graffio. Faccia lei il paragone con i nove giorni di Giulio».
Che cosa l’ha spinta a diventare quello che è diventata, avvocato per i diritti civili?
«L’esempio di mia madre, una casalinga. Aiutava tutti, dava l’elemosina a chiunque incontrasse, i mendicanti venivano direttamente a casa nostra a chiedere, e la porta si apriva sempre».
Bilancio dei suoi primi 50 anni?
«Quando li ho compiuti, a fine novembre, ho pensato: speriamo di arrivare fino alla fine del processo di Giulio. La signora Alpi e suo marito sono morti prima di avere giustizia per Ilaria. I processi, specialmente questi, sono lunghi. Il nostro comincerà con gli imputati in assenza, rappresentati da avvocati d’ufficio. Poi ci saranno i vari gradi e chissà quante interferenze. Ma nonostante tutto io continuo ad avere fiducia. Sono state le confessioni di persone che hanno sentito di non poter più tacere a portarci alle quattro incriminazioni. E altre ancora forse parleranno. Se lo faranno davvero, ciò che resta del muro della vergogna cadrà giù».
E quando cadrà? La tomba di Giulio si trasformerà in una collina verde come nel disegno che tiene in casa?
«Io non ho figli, ma non credo sia necessario averli per intuire, almeno intuire, che cosa significherebbe per i genitori di Giulio arrivare, dopo questo immenso dolore, alla verità. Basta un po’ di cuore per capirlo».