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 2020  dicembre 19 Sabato calendario

Cosa ci dice la voglia di Draghi

A me sembra che tutto si tenga: il sondaggio Swg offerto ad Huffpost secondo cui la maggioranza relativa degli italiani desidera Mario Draghi al comando del governo spiega bene che sta succedendo. L’ultima rilevazione, il 19 giugno, dava ancora avanti Giuseppe Conte (28 per cento a 25). Ora Draghi sale di un punto (26) e Conte scende di sette (21). Nella seconda metà di giugno il Covid sembrava controllabile, organizzavamo le ferie con margini di libertà, poi interpretati in senso ampiamente estensivo, il premier si era preso licenze sui cardini della democrazia con l’ammutolito appoggio della moltitudine, poiché davanti al nemico oscuro e inatteso serve un condottiero.
Sei mesi dopo l’aria è altra. Il Covid imperversa, fa strage quotidiana al ritmo di seicento-novecento morti al giorno, impone ulteriori restrizioni alla vita sociale ed economica, allunga le file dei poveri, e la terrorizzata docilità primaverile è mutata in irritazione invernale. Quella che allora passava per saldezza del governo ora è conclamata irresolutezza, ed essere arrivati a pochi giorni dal Natale ignorando a quali norme ci si dovesse attenere per le festività, ha consegnato l’immagine definitiva di un Conte titubante e disarmato. Non è che qui lo si aiuti molto: a ogni decisione si solleva un piagnisteo, di chi ha la fidanzata un metro al di là della zona rossa, di chi è privato della consolante compagnia del cugino, ed è noto che la democrazia perfetta avrebbe bisogno di zero leggi, e il popolo che ha bisogno di molte leggi, e arzigogolate, è un popolo arzigogolato e insofferente alle regole.
Anche io, comunque, vedrei molto bene Draghi a Palazzo Chigi, ma se fossi Draghi non ci andrei nemmeno con gli spadoni alla schiena. Piuttosto è divertente, e consolante, che nemmeno tre anni fa la maggioranza abbia votato per l’antieuropeismo a cinque stelle (e leghista) e oggi sceglierebbe un totem dell’europeismo. Anzi, non sceglierebbe: si affiderebbe. Per noi scegliere è un atto di fede. Non vogliamo un presidente del Consiglio, vogliamo un demiurgo, o almeno un mago. Si transita da Berlusconi a Di Maio, da Salvini a Renzi con la disinvoltura con cui si cambia canale sul telecomando, e tuttavia con aspettative salvifiche al limite della superstizione. Guardate il passaggio da Di Maio (e Conte) a Draghi: è anche il più spericolato passaggio dal massimo dell’incompetenza al massimo della competenza. Come questa isterica volatilità, sostanziata da querimonia, possa produrre mai un buon governo, è ignoto ai cieli.
E infatti l’arrivo dei tecnici nel posto degli eletti è sempre stato determinato da una manovra di palazzo (per quanto legittima e profondamente politica), mentre stavolta sarebbe acclamata dagli elettori. Stupendo, vero? Perché sì, un sondaggio serve a rilevare la volontà popolare, è un atto di democrazia, ma gli elettori che rinunciano ai loro eletti per un tecnico è, a prima vista, un moto di sfiducia verso la politica ma, a guardare meglio, è un moto di sfiducia degli elettori verso la loro capacità di scegliere, cioè verso sé stessi. Tutto si tiene, e tutto si slabbra.