La Lettura, 20 dicembre 2020
Puoi sempre rialzarti. Churchill insegna
È stata lodata come la biografia definitiva di Winston Churchill, quella scritta dallo storico Andrew Roberts e appena uscita in Italia da Utet. Nella sua casa londinese piena di memorabilia churchilliani, dalle lettere al cravattino, l’autore ne parla con «la Lettura».
Partiamo dalla fine: quest’anno abbiamo assistito all’abbattimento delle statue di personaggi considerati compromessi con schiavismo e colonialismo. Anche il monumento a Churchill, a Londra, è stato sfregiato con la scritta «razzista». Lo fu veramente?
«Churchill ha sicuramente pronunciato insulti razzisti e fatto battute razziste, o che oggi consideriamo tali: bisogna ricordare che era nato nell’Ottocento, quando la gente credeva alle gerarchie razziali come a un fatto scientifico. Ma se guardiamo a che cosa fece nella vita, lottò contro la schiavitù in Sudan, si oppose ai boeri in Sudafrica e riteneva una disgrazia il modo in cui essi trattavano i neri: la vera questione per l’Impero britannico in quel momento era fare avanzare i diritti delle popolazioni native. Churchill guidò truppe nere in battaglia, elogiò il loro coraggio, non fece nulla di spiacevole o cattivo verso altre persone a causa della loro origine etnica. Un razzista è invece qualcuno che tratta in maniera aggressiva individui di un’altra razza».
Dunque un ritratto molto più sfumato rispetto alle accuse che da alcune parti gli si rivolgono...
«Molto più sfumato rispetto a chi dice semplicemente che, poiché fece alcune battute razziste, allora era un malvagio colonialista e imperialista».
Lei mette molta enfasi sull’educazione di Churchill, cresciuto come un bambino solo che si sentiva abbandonato. È lo stesso ritratto fatto di recente in una biografia di Boris Johnson, che si atteggia a novello Churchill...
«È una cosa buona quando i politici di oggi provano a modellarsi sui grandi leader del passato. Leggere e scrivere di quei leader, come fa Boris, è quello che i politici dovrebbero fare: purché non credano di essere loro dei Churchill. Boris non lo crede, sa benissimo che ci sono echi e riferimenti, consci o inconsci: ma lui non è un pazzo che pensa di essere Churchill reincarnato».
Ci sono però somiglianze personali.
«Sì, Boris è avventato, nella maniera in cui lo era il suo predecessore. Johnson ha fatto errori: e Churchill fu il primo ad ammettere i suoi sbagli e a riconoscerne l’importanza. Boris ha anche una grande visione, ha il senso della Gran Bretagna e del suo posto nel mondo, come lo aveva Churchill. E l’idea della vita come un’avventura. Non dobbiamo sottostimare quanto Churchill fu odiato e criticato per il suo senso di un destino personale».
Cioè il sottotitolo del libro, «Walking with destiny», camminare col destino.
«È una parte essenziale per comprendere Churchill. Possedeva un senso propulsivo di avere un destino particolare».
Destino solo suo o della Gran Bretagna tutta?
«Aveva il senso di un suo destino sin da quando aveva 16 anni e studiava a scuola a Harrow, quando disse a un suo amico che ci sarebbero state grandi sfide e lui sarebbe stato chiamato a salvare l’impero: e lui intendeva salvare il mondo. Anche quando perfino sua moglie pensava che non sarebbe mai diventato primo ministro, lui ci credeva. E quando fu nominato premier, disse che tutta la sua vita passata era stata una preparazione a quel compito, combattere Hitler».
Ma alla fine divenne il liquidatore dell’impero.
«Sì, lui considerava di avere fallito. Aveva creduto nell’Impero britannico, aveva combattuto per quella causa, pensava fosse la migliore realizzazione della Gran Bretagna: ma anche se personalmente non cedette un centimetro di territorio, fu a causa della Seconda guerra mondiale che l’impero dovette finire».
Nel suo libro lei non glissa sui molti errori commessi da Churchill. Quali furono i peggiori?
«Sono tanti. Il ritorno al gold standard, la convertibilità in oro della sterlina, nel 1925, per esempio; poi sbagliò nella crisi dell’abdicazione, quando sostenne Edoardo VIII, o sull’Irlanda, con l’appoggio alle operazioni antiterroriste».
E non era neppure favorevole all’indipendenza dell’India.
«No, ma solo perché non voleva consegnare l’India al suo popolo prima che fosse pronta per l’indipendenza. Voleva che ci fosse un ruolo per la minoranza musulmana: si tratta di una posizione difendibile. E il modo in cui il successivo governo laburista gestì l’indipendenza portò a conflitti con milioni di morti, che Churchill considerava evitabili. Il suo operato sull’India non può essere considerato del tutto un errore».
Sull’Europa Churchill fu profetico, fu il primo a preconizzarne l’unione politica. Europeista o brexiter ante litteram, come vogliono altri?
«Lui era assolutamente a favore dell’Unione Europea: solo che non voleva che la Gran Bretagna ne facesse parte. Vedeva Londra come amica e alleata e sostenitrice dell’Unione Europea, ma non come un membro di essa: perché la Gran Bretagna aveva legami anche col Commonwealth e gli Stati Uniti, oltre che un diverso sviluppo storico, e dunque lui non volle mai che il Regno Unito diventasse parte di questo progetto europeo. Sì, sarebbe stato per la Brexit, ma non in senso anti-europeo: un po’ come Johnson, che si augura il bene dell’Europa, solo che non vuole esserne parte».
Negli ultimi anni Churchill ha avuto un grande revival: pensiamo ai film, a partire dall’«Ora più buia». È una figura che continua a dominare la psicologia nazionale britannica, che sembra non uscire mai dalla narrativa della Seconda guerra mondiale.
«Non onoriamo Churchill solo per il ruolo in guerra, ma per le sue qualità di leader, per essere stato il primo anticomunista, perché odiava il totalitarismo. E poi per il suo humour e le sue frasi, che la gente ama citare. E francamente, dopo la guerra, a parte Margaret Thatcher, non abbiamo avuto altri grandi leader».
Churchill ha dato anche un grande contributo alla lingua inglese e all’arte oratoria.
«Sì, un contributo molto profondo, con la sua padronanza della lingua inglese, la capacità di usarla per eccitare i cuori. Non era un oratore naturale, faceva molte prove, prendeva appunti. I suoi interventi più famosi erano accuratamente preparati: diceva che faceva pratica per tante ore quanti erano i minuti del discorso. È un processo più interessante che se fosse stato un genio naturale dell’oratoria. Soppesava ogni parola. E la sua maestria si estende oltre la lingua inglese, anche gli italiani sarebbero in grado di apprendere molto dai suoi discorsi».
Lei ha usato in apertura del suo volume i versi di «Se», la celebre poesia di Rudyard Kipling: perché?
«Churchill amava Kipling come poeta e quella era una delle sue poesie preferire. I versi su “passeggiare con i re senza perdere il contatto con la gente comune”, ci fanno pensare a Churchill».
E anche il Successo e la Sconfitta...
«Sì, e “trattare questi due impostori allo stesso modo”. Churchill dovette affrontare nella sua vita il disastro e il più alto trionfo. Ma tanto nel disastro quanto nel trionfo era in grado di fare battute, perciò non credo che soffrisse di depressione come si è spesso detto».
Qual è oggi il suo lascito maggiore?
«La sua resilienza. Il fatto che puoi subire ogni rovescio e comunque sopravvivere. Churchill ci insegna che puoi sempre risollevarti, non importa quanto male siano andate le cose. Per il nostro momento attuale, è il messaggio più importante che viene da lui».