La Lettura, 20 dicembre 2020
“La strada verso casa”, il libro del 2020 per La Lettura
Holt e Itaca: esistono, possono esistere, due luoghi più diversi? Da un lato, una frastagliata isola della Grecia più antica, realmente presente nel Mediterraneo (che sia l’Itaca odierna o la vicina Leucade, come sostengono alcuni, poco cambia); dall’altro, una cittadina immaginaria del Novecento americano, nel rettangolare Colorado, uno degli Stati degli Usa con un doppio landlock (non ha infatti accesso al mare, né lo ha alcuno degli Stati suoi confinanti).
A prima vista, ad accostarli può esserci solo un fatto, al di là del vertice della Classifica di Qualità de «la Lettura» dei libri e di quella delle traduzioni: la loro vocazione letteraria, sebbene anche qui vi sia una differenza sostanziale. Itaca è un «ur-luogo» della letteratura di ogni tempo, una sorgente da cui sgorgano infinite storie. Si va da quella omerica originaria a quelle innumerevoli da essa influenzate, passando per le molte reinterpretazioni e continuazioni del mito di Ulisse: quella di Dante e quella di Joyce, quella di Tennyson e quella di Walcott, fino all’Odissea di Nikos Kazantzakis, scritta in 13 anni tra il 1925 e il 1938, e finalmente giunta in Italia grazie alla versione di Nicola Crocetti (anche editore), durata a sua volta 7 anni, giudicata migliore traduzione dell’anno dai giurati de «la Lettura». La cittadina di Holt, al confronto, è un luogo infinitamente più umile, che ha avuto un solo cantore, il suo creatore Kent Haruf, che tuttavia vi ha ostinatamente ambientato ogni suo romanzo, compreso l’ultimo uscito da noi, sempre per NN editore, in cima alla Classifica del supplemento: La strada di casa, pubblicato originariamente nel 1990, cioè 9 anni prima di quel Canto della pianura che avrebbe dato a Haruf la fama letteraria in patria. Ma poiché ogni opera di vera letteratura, come suggeriva Goethe, è il nodo di una vasta rete, anche i luoghi più antitetici, se fanno parte di testi significativi, possono trovare punti in comune e coincidenze, momenti di sincronicità e specchi inattesi a ogni angolo. Tanto più che l’opera monumentale di Kazantzakis, 33.333 versi per 840 pagine, nasce con un intento dichiaratamente onnicomprensivo: costruire la sintesi di tremila anni di storia del pensiero umano, e quindi è in qualche modo progettata per risuonare con tutte le opere cui viene accostata.
Così, per quanto l’anima dell’Odissea di Kazantzakis sia dilaniata tra Buddha e Lenin e arda delle filosofie di Bergson e Nietzsche, mentre il buon Haruf pare appoggiarsi più sobriamente all’ecumenismo pastorale di Whitman, e quindi al pensiero di Ralph Waldo Emerson, non è impossibile trovare angoli capaci di sovrapporsi, identificare nelle due opere addentellati che permettano di agganciare il Colorado a Itaca, in una vertiginosa plica di piani di realtà.
Per cominciare, La strada di casa — che è proprio quella che Ulisse intraprende per il suo ritorno – comincia con qualcuno che è appena tornato nella città natia, ed è una persona che potrebbe avere diversi misfatti, e ha certamente molte avventure, sulle spalle. Il primo Haruf ha un clima più teso, più vicino nei toni al noir o al gotico americano e ancora distante dalla serenità che è in grado di emanare la sua Trilogia della pianura, tanto amata dai lettori italiani; il modello, con misfit di provincia che fuggono e tornano, parrebbe il Faulkner di Luce d’agosto, scritto nel 1931 e pubblicato l’anno dopo, proprio mentre Kazantzakis era a metà del guado.
Molte grandi storie cominciano con un ritorno, e la fonte di questo topos letterario è proprio l’Odissea, quella di Omero, in cui il nostos, il ritorno a casa, è l’obiettivo finale ma anche il motore della vicenda, al punto che molti si sono chiesti, dopo: «E poi?». Lo fa anche Kazantzakis, la cui Odissea comincia nel momento in cui Ulisse, uccisi i Proci, poggia l’arco e si concede un bagno caldo nel proprio palazzo, prima ancora di incontrare Penelope. Il segreto non durerà a lungo: «Intanto la notizia dilaga nelle corti: il sovrano/ è tornato, preme il piede saldo sulla terra dei padri,/ e alle mense ha sgozzato i pretendenti come tori./ I genitori degli uccisi urlano curvi sui bastoni,/ battono alle porte della città, sobillano le folle;/ i contadini abbandonano nei campi i loro attrezzi;/ gli artigiani chiudono le botteghe, e i rematori/ risalgono barcollando dalle osterie sul mare».
Certo, l’Ulisse di Kazantzakis è destinato a imprese favolose: dal secondo rapimento di Elena a una biblica traversata d’Egitto; da un viaggio fluviale verso le sorgenti del Nilo alla fondazione di una città utopica sul modello platonico; fino agli incontri con le ipostasi del Buddha, di Don Chisciotte e di Gesù. Non è il caso di Jack Burdette o del suo amico/rivale/riflesso Pat Arbuckle: le storie di Kent Haruf hanno a che fare col micromondo di una comunità umana (e con quelli dell’interiorità di ciascuno), e trovano la loro energia proprio nella piccolezza. Tuttavia, un punto in comune c’è. La posta in gioco, sia nel grandioso mondo di archetipi messo in campo da Kazantzakis, sia in quello minuscolo della provincia ordinaria amata da Haruf, è la medesima: la volontà di prendere il controllo del proprio destino. Diverse, magari, le conclusioni: l’Ulisse che arriva a partire da solo con un kayak verso la morte, fino a far piangere il Sole stesso («Sole, grande astro orientale, hai gli occhi lacrimati,/ il mondo intero si è oscurato, la vita ha le vertigini,/ ora scendi da tua madre nella casetta delle onde») ha un afflato diverso dai personaggi della Strada di casa, e da quelli di Le nostre anime di notte, ultimo libro ambientato a Holt, la cui vicenda costituisce una sorta di epilogo morale dell’intero epos harufiano, ma in ballo c’è sempre il nostro posizionamento nel mondo, a prescindere dalla vastità dell’orizzonte che riusciamo a scorgere.
Kazantzakis arriva ai lettori italiani solo oggi, grazie allo sforzo, lo si può ben dire, epico di Nicola Crocetti, che nonostante una carriera mirabile da grecista ed editore, trova con quest’impresa la propria consacrazione ultimativa: un nuovo posto nel suo mondo, quello della traduzione. Non si creda però che alle ovvie difficoltà di esportare un’opera di questa complessità anche linguistica (l’autore, che era a sua volta traduttore, raccolse in giro per la Grecia migliaia di parole del dimotikì, la lingua rurale, destinata alla scomparsa, che ancora aveva in sé lemmi del greco più antico) abbia fatto da contraltare, in patria, un successo indiscusso: l’Odissea fu malvista dalla critica fin dall’uscita per le inusuali scelte lessicali e metriche, e poi osteggiata per ragioni politiche al punto che la Grecia tutta, intellettuali compresi, si batté per contrastare la candidatura di Kazantzakis al Nobel, caso forse unico nella storia del premio.
Così, facendo le debite proporzioni, anche qui si può cogliere un riflesso della vicenda harufiana: il debutto a 41 anni, lo scarso successo dei suoi primi libri, nonché il disinteresse della critica per quelli successivi all’unico andato davvero bene alla prima uscita, Canto della pianura, primo volume della sua Trilogia, non ne fanno magari un incompreso ma certamente qualcuno che non ha raccolto in vita tutto quello che meritava, nonostante la riscoperta in patria e il sorprendente colpo di coda presso i lettori italiani. E allora, se il traduttore italiano di Haruf, Fabio Cremonesi, al termine di Canto della pianura parla di un ritorno a Holt come di un «ritorno a casa», e con Kazantzakis e Crocetti leggiamo che «ritto sull’albero maestro, tra grappoli d’uva riccia,/ il grande Viaggiatore ascolta il canto del ritorno;/ vuote e chiare le sue pupille, il cuore più leggero —/ Vita e Morte sono un canto, l’uccello è la nostra mente», è evidente che questo ulteriore, atteso ritorno costituito dalla Strada di casa fa di Holt la veridica Itaca dei lettori italiani contemporanei.