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 2020  dicembre 19 Sabato calendario

Biografia di Trilussa

Sempre con l’intenzione di addolcire questa segregazione natalizia con letture piacevoli e poco impegnative, ci piace ricordare Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa, di cui ricorre dopodomani il settantesimo anniversario della morte. La sua satira, pungente ma benevola, è un provvisorio analgesico contro la depressione dell’isolamento e la sfiducia nell’incerto annaspare della politica, anche se questi deliziosi intervalli di umorismo nascondono spesso un sentimentalismo crepuscolare. 
DISINCANTO
Trilussa era nato a Roma il 26 ottobre 1871. Il padre era cameriere e la madre sarta, ed esprimevano al meglio le caratteristiche della piccola borghesia locale, prudente nei comportamenti e disincantata nei giudizi. In questo ambiente, l’impronta plurisecolare della dominazione papalina aveva suscitato perplessità e rancori, che sconfinavano nell’anticlericalismo. Il ragazzo a sedici anni già scriveva opere satiriche in un dialetto graffiante nel contenuto ma ingentilito nella forma, così da esser comprensibile anche a chi non era nato sotto il venerabile Colosseo. 
La neo Capitale era allora in piena trasformazione, e Trilussa ne fu attento testimone e inimitabile cronista. Osservava la gente comune con la lente di Esopo e lo spirito di La Fontaine, e ne scolpì i pregiudizi, i difetti e le meschinità con una vena inesauribile; nell’arco di due anni, tra il 1887 e il 1889 aveva già pubblicato cinquanta poesie e quarantuno prose. Per tutta la vita continuò a produrre sonetti, madrigali e altre composizioni poetiche alternate a pungenti elzeviri. Acquistò presto una buon fama non solo per gli scritti, ma anche per le sue esibizioni nei salotti e nei teatri. Suscitava il riso e alimentava il buonumore, ma sotto sotto, come in tutti i fustigatori di costumi, celava una struggente malinconia. 
Trasse spesso ispirazione dalle favole dei classici, e durante il ventennio superò gli ostacoli della censura fascista sostituendo agli individui gli animali, nei quali ognuno di noi può riconoscere le miserie e le vanità proprie e altrui, e più in generale la condizione umana. Con la sostanziale differenza che l’uomo alimenta la sua illusoria presunzione, e alla fine è più bestia di tutte le altre. Vale la pena di trascrivere (parzialmente) la sua Raggione der perché : «Dar tempo der peccato originale/ tutto è rimasto uguale. / Dall’aquila alla pecora alla biscia/ chi vola, chi s’arampica chi striscia/ dar sorcio a la mignatta a la formica / chi rosica, chi succhia chi fatica». Ognuno, come si vede si adatta al ruolo assegnatogli dal Padre Eterno. Solo l’uomo non s’accontenta mai, e «Sur più bello ch’è arrivato in cima/ quanno se crede d’esse più evoluto/ vede un pezzetto d’oro..e te saluto/ È più bestia de prima».. Una frase presa dal Faust di Goethe, senza la sulfurea mistica dell’irrequieto dottore. Il concetto è ribadito in modo anche più desolato, nella Bolla di sapone. La bolla parla di sé, e si definisce così : «Son bella sì, ma duro troppo poco/la vita mia, che nasce per un gioco/ come la maggior parte delle cose /sta chiusa in una goccia. Tutto quanto/ finisce in una lacrima di pianto». Qui c’è tutto il pessimismo funebre di Pascal, dal quale probabilmente il nostro poeta ha tratto il concetto che, per quanto sia bella la nostra commedia il finale è sempre triste, «un peu de terre sur la tête, et en voilà pur jamais». 
Pur non essendo praticante, Trilussa seppe anche tradurre in poesia minuta l’insondabile mistero della Fede, che nell’omonima poesia rappresentò come una vecchietta cieca che lo guida fuori dal bosco dove il nostro s’era perduto. A differenza dell’insegnamento paolino, e del dipinto di Brueghel, dove il cieco guida i ciechi e cadono tutti nel fosso, qui il viandante poeta si affida a una forza superiore e irrazionale, che vede dove i nostri occhi non vedono, e indica la strada altrimenti nascosta dalla nostra sostanziale infermità. Sotto l’apparenza di una spontaneità popolaresca, Trilussa riassumeva gli insegnamenti dei saggi. 
Nel suo sostanziale pessimismo, non era minato dal decadentismo nichilista di Delio Tessa, né dall’introspezione dolente di Biago Marin, i due poeti che, assieme a lui, hanno contribuito a rivalutare la poesia dialettale dopo gli avari giudizi della critica accademica. Anche Trilussa, come Giochino Belli, fustigò i preti avidi e fannulloni, i bigotti ipocriti e i vizi plebei; e come tutti gli autori satirici descrisse la realtà con una prospettiva in parte distorta, perché accanto a un nucleo di immoralità e stupidità – presente in ogni tempo e in ogni paese – c’è un fermento di vita sana, buona e operosa, sufficiente a conservarci socialmente dignitosi e discretamente sani. 

LA POLEMICA
Tuttavia evitò i toni dell’irritante pedagogismo apocalittico, ed anche la sua inevitabile lode del buon tempo antico è mitigata da un’indulgente ironia. Non aveva la vis polemica dei suoi immediati predecessori né l’indignato moralismo del più illustre antenato Giovenale. Forse si ricordava delle parole di Seneca che «i nostri progenitori si lamentarono, noi ci lamentiamo e i nostri discendenti si lamenteranno che la morale è corrotta, la malvagità prende piede, i figli non rispettano più i genitori e le cose vanno di male in peggio per mancanza di valori». E non ci sono neanche più le mezze stagioni. Il filosofo sa che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. 

SCETTICISMO
Trilussa, che politicamente si dichiarava afascista, non ebbe fastidi dalla miope censura mussoliniana. Forse il suo congenito scetticismo romano gli ispirava quel disincanto che impedisce le eroiche gesta dei perseguitati, e forse preferiva, come Amleto, accettare con rassegnazione i mali certi e presenti piuttosto che avventurarsi verso quelli ignoti e futuri. Entro questi limiti, seppe tuttavia punzecchiare le fanfaronnades, se non proprio del Duce, almeno quelle dei suoi imitatori servili. Battendo la sella, per non battere il cavallo, fu una delle poche voci critiche nei confronti della dittatura. A coronamento della sua opera, il 1 dicembre 1950 il Presidente Luigi Einaudi lo nominò senatore a vita: fu un gesto doveroso verso un poeta che aveva elevato il vernacolo romanesco alla dignità di una letteratura significativa, e che dopo altalenanti fortune, è oggi riconosciuta come una delle più esuberanti e vitali del secolo scorso. E fu anche un aiuto economico, perché l’anziano infermo era ridotto, nonostante il successo, all’indigenza. Emozionato, ma incorreggibile nella sua ironica bonomia, Trilussa commentò «M’hanno nominato senatore a morte». In effetti spirò, come abbiamo detto, poche settimane dopo, nello stesso giorno di Giochino Belli, pronunciando, pare, l’ultima battuta in romanesco: «Mò me ne vado».