ItaliaOggi, 19 dicembre 2020
Orsi & tori
Ha detto Mario Draghi nei giorni scorsi: «Anche in futuro le piccole e medie imprese continueranno a dipendere dal sistema bancario e anche per questo la salute degli istituti di credito è importante. Tutti vogliamo banche che continuino a sostenere l’economia e il settore privato, ma se il loro capitale viene assorbito dai crediti deteriorati, quel sostegno mancherà». Quindi Draghi, non senza sorpresa, ha due convinzioni: 1) che le pmi non possano che essere finanziate dalle banche; 2) (lo aveva detto pochi attimi prima) che le aziende non redditizie non devono essere finanziate dalle banche perché diversamente i crediti deteriorati affossano le banche. Questa volta, Professore o Caro Mario, non sono d’accordo con le sue tesi. Principalmente su quella che le pmi continueranno, per forza, senza alternativa, a dipendere dalle banche; secondariamente, tout court, che le aziende non redditizie debbano non ricevere più credito. Forse, la sintesi del report del discorso non ha permesso di fare un distinguo fra le pmi che non rendono, per cause straordinarie come oggi, oppure in assoluto. Se il riferimento è ad aziende non redditizie che lo sono a medio e lungo termine senza cause specifiche e straordinarie, allora si può anche essere d’accordo, e in realtà questa è selezione darwiniana che è sempre esistita, più o meno brutale che fosse. Ed è anche la logica del mercato, se si fosse in un mercato realmente efficiente. Se invece il riferimento è (o lo è anche) alla fase straordinaria determinata dal Covid, allora confermerei anche su questo punto il mio disaccordo, che niente conta in pratica, ma invece potrebbe contare qualcosa se lo si riferisse in particolare all’Italia, che notoriamente si regge sulle pmi: molte buone, altre cattive e per le quali la selezione a priori è sempre difficile da fare vista la fluidità tipica delle pmi.Il dissenso è totale sull’ineluttabilità che le pmi siano eternamente dipendenti dalle banche in quel circuito perverso che poi crea gli npl. Le ragioni per non condividere l’ineluttabilità sono più di una e attengo proprio alla particolare struttura del sistema economico italiano, ricco di paradossi: 1) l’Italia è il Paese, assieme al Giappone, con il più alto risparmio, ma è anche il Paese con la più alta percentuale di risparmio (ben il 75%) che viene investito all’estero; 2) nonostante gli italiani siano grandi risparmiatori, non sono portati a investire in Italia i loro capitali per la semplice ragione che in Italia il mercato dei capitali quasi non esiste: appena 300 società quotate alla Borsa principale, con la larghissima parte di capitalizzazione dovuta alle prime 30. C’è il mercato Aim, nato sul modello di quello di Londra, dove sono state quotate più di 3 mila società, mentre dopo dieci anni di vita al mercato italiano delle pmi ne sono state quotate poco meno di 150.
Perché esiste una Borsa così asfittica? Per quella principale, le ragioni sono note e sono più di una: 1) per decenni la borsa è stata dominata da Mediobanca, unica banca d’affari italiana, che l’ha usata, quando serviva, a vantaggio unico di poche famiglie del capitalismo. Soltanto raramente imprenditori significativi si sono ribellati al potere di Mediobanca. È successo con Mediaset, perché non facendo parte Silvio Berlusconi della cerchia delle famiglie elette, Mediobanca impose (così è) all’allora Credito italiano di ritirare le linee di credito di Fininvest; assieme al salvataggio, con l’apertura di linee di credito equivalente, la Banca di Roma guidata allora da Pellegrino Cataldo e Cesare Geronzi, si impegnò per far quotare Mediaset in Borsa. E fu un successo. Scomparsi Enrico Cuccia e il suo successore Vincenzo Maranghi, l’atteggiamento di Mediobanca è cambiato, ma era troppo tardi; 2) naturalmente non tutte le colpe sono di Mediobanca e infatti le concause sono diverse, molte riconducibili a due realtà italiane: in primis l’evasione fiscale, che ha provocato l’innalzamento delle aliquote per gli onesti, spingendone alcuni a diventare essi stessi evasori, e dall’altra parte una sete insaziabile di denaro da parte dello Stato, che se l’è procurato mettendo sul mercato titoli (dagli anni 80 e seguenti) con rendimenti talmente alti che i risparmiatori, attraverso le banche, non avevano nessuno stimolo a investire in attività produttive. Quindi il mercato dei capitali non è mai decollato. E, peggio, si è assistito a una costante crescita del debito pubblico. Soltanto l’euro, che ha peraltro provocato altri danni, ha consentito di emettere debito pubblico a tassi assoluti più bassi, ma comunque nettamente superiori a quelli delle emissioni di altri Paesi europei. Si potrebbe aggiungere la delinquenza organizzata, che non ha mai pagato imposte, oppure i governi e politici talvolta, se non spesso, non all’altezza della situazione, cioè incapaci di rimediare a questa deformazione del sistema italiano. Ma se questo è il passato e il presente, inclusa la stagione delle privatizzazioni, che fu un’altra occasione persa per creare un mercato vero dei capitali verso il quale canalizzare l’enorme risparmio privato, non è accettabile, specialmente dal prof. Draghi, che ci si rassegni a una interdipendenza assoluta pmi-banche-pmi.
L’Italia, come ripete fino alla noia il professor Paolo Savona, non è affatto sull’orlo del fallimento perché avrebbe due assi per potersi riprendere: appunto il risparmio enorme e ricavi importantissimi dall’export. Tutto ciò, se gestito, può riportare il finanziamento delle pmi e delle aziende in generale a valori europei o mondiali. Quando Federico Ghizzoni era ad di Unicredito, non si stancava di ripetere che il governo avrebbe dovuto prendere decisioni coraggiose per evitare che il 95% di fabbisogno finanziario delle pmi continuasse a venire dalle banche. Ghizzoni è da alcuni anni con soddisfazione presidente della Banca Rothschild in Italia e la situazione non è cambiata di una virgola.
Che cosa dovrebbe fare il governo per ribaltare questa paradossale situazione? Non una sola iniziativa, ma una principale subito. Avere il coraggio di incentivare con crediti fiscali gli aumenti di capitale senza limiti. Il provvedimento finora approvato è ridicolo: del credito fiscale godono solo gli aumenti di capitale in società con fatturato da 5 a 50 milioni, come se il problema non esistesse anche per le aziende che fatturano meno di 5 milioni o quelle, decisive perché centrali al sistema, che ne fatturano più di 50. E il provvedimento deve valere per tutti i tipi di società, incluse quelle quotate in Borsa e all’Aim. In pratica, lo stesso schema del Superbonus 110%, che si propone di far ripartire l’edilizia. Un provvedimento sensato per risolvere il problema della sottocapitalizzazione del sistema economico italiano è l’unico, in queste condizioni, che può consentire di salvare le aziende in pericolo e di sviluppare le altre. L’Italia deve risucchiare in patria quella fetta impressionante del 75% di risparmio che diventa carburante per lo sviluppo di altre economie. Il vantaggio fiscale è l’unico che può attrarre chi ha risparmio e capitali.
Nello schema attuale si percepisce la prudenza del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, attento a non defiscalizzare troppo il Paese. Una posizione che merita rispetto ma che non è realmente fondata. Se si sviluppa l’economia, cresce inevitabilmente anche il gettito; se l’economia langue non c’è gettito sufficiente a sostenere il debito nazionale. Non abbia paura, Signor Ministro Gualtieri: un piano di ampio respiro non può che passare attraverso una ricapitalizzazione del Paese non tanto e soltanto con i contributi europei, quanto convincendo gli italiani, con la leva del fisco, a destinare almeno una metà del risparmio che va all’estero a ricapitalizzare le aziende italiane.
Naturalmente l’incentivo fiscale non basta. Ci sono molte altre cose da fare. Primo: la Borsa. Con l’operazione Borsa Italiana-Euronext si sono poste le basi, ma occorre ora passare all’operatività. In primo luogo, rafforzando in maniera decisiva l’Aim, che soffre soprattutto di un difetto strutturale: la mancanza di fondi che garantiscono la liquidità del mercato. Non bastano i Pir e neppure quelli nuovi. Bisogna favorire chi può garantire liquidità al mercato. Oggi ogni società dell’Aim ha uno specialist, che per definizione si limita a fornire informazioni alla società quotata. Occorre che gli specialist, chi vuole naturalmente, si trasformino in market maker, cioè capaci di dare liquidità al titolo. Quando, anni fa, c’era il mercatino, ogni società aveva, sia pure non in maniera istituzionale, chi faceva prezzo. Il fondo di liquidità di quel mercato potrebbe farlo CdP, assieme a operatori privati.
Ma c’è un dato che indica la strada maestra e lo ha messo in evidenza anche Assonime, l’associazione delle spa. Nei primi nove mesi del 2020 le emissioni di capitale sul mercato azionario italiano sono state pari a circa 1/4 di quelle sul mercato inglese, e passi, visto che la City è leader in Europa; ma le emissioni italiane sono anche meno di 1/3 di quelle realizzate sul mercato tedesco e francese, e meno del 40% rispetto a quelle realizzate sul mercato svizzero e svedese. Insomma, assolutamente ultimi nell’Europa che conta.
Negli Stati Uniti quando un bambino nasce, in molti casi, non solo viene preiscritto a una scuola, ma ha anche per quando sarà adulto un broker di riferimento. Questo indica che c’è un profondo lavoro culturale da attuare, che non può esaurirsi nelle iniziative di educational finanziarie. Se c’è una Giornata del risparmio, ci deve essere anche una Giornata dell’investimento azionario, che questo giornale annuncia fin d’ora di essere pronto a organizzarlo. La gente deve capire che mettendo parte del proprio risparmio nel capitale delle imprese contribuisce a garantire un posto di lavoro ai propri figli, grazie allo sviluppo di quell’azienda, ma a catena anche delle altre. Ma altrettanto devono comprendere i gestori del denaro se solo si creano condizioni incentivanti, per poter colmare temporalmente la differenza con l’investimento in mercati più avanzati.
C’è poi la necessità di strumenti nuovi che facilitino la destinazione del risparmio alla crescita di capitali (carburante fondamentale) per far crescere l’economia. In passato la visione della Borsa da parte di molti italiani è stata quella di una bisca. In parte era vero. Non c’erano i fondi di investimento e la Consob, per regolare e controllare i mercati, era presieduta da un uomo sicuramente intelligente (e andreottiano) come Bruno Pazzi, che aveva come maggiore qualifica quella di gestire sale teatrali e all’età di 80 anni finì agli arresti domiciliari per un’indagine condotta dai magistrati di Mani pulite. Oggi, ma non solo da oggi, la Consob dà ampie garanzie, avendo anche il vantaggio di avere un presidente come il professor Paolo Savona, che non è solo un grande economista, ma anche un esempio assoluto di correttezza e di conoscenza dei mercati. Quindi, gli italiani devono essere stimolati alla ricapitalizzazione del Paese sapendo che la Borsa non è più una bisca e che ci sono vigilanti di alto spessore.
Se questo è l’obiettivo, e lo è con opinioni convergenti, allora il prof. Draghi potrebbe dare un contributo intellettuale per andare avanti e cancellare quella brutta impressione che ha provocato la sua affermazione secondo cui le pmi siano condannate a dipendere dalle banche e le banche condannate agli npl per la fragilità finanziaria delle pmi. Santo Iddio, siamo sotto Natale, anche se Covid, occorre un po’ di ottimismo: perché se mette nel motore il carburante del suo risparmio, l’Italia può veramente svoltare. Converrà Draghi che il Paese ha bisogno di un progetto di grande respiro, e quale può essere se non quello di impiegare in Italia ciò che gli italiani hanno prodotto e risparmiato?
Buon Natale a tutti i nostri lettori e quindi anche al professor Draghi, il cui contributo, non pessimista, può essere molto importante per l’Italia.