il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2020
La radio pubblica che non fa più servizio pubblico
“Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la Radio”
(Da Norme per la redazione di un testo radiofonico di Carlo Emilio Gadda – Adelphi, 2018 – pag. 11)
Chi ama la radio, e ha sempre ritenuto finora che quella pubblica sia migliore della televisione pubblica, deve registrare con rammarico una progressiva involuzione di Radio Rai. Nei contenuti, nei format e nei linguaggi. Tanto più che la radio nazionale si può ascoltare in streaming anche all’estero, più agevolmente di quanto si possano vedere i canali tv.
A parte l’enclave della terza rete, dedicata in prevalenza alla cultura e alla musica classica, le prime due reti radiofoniche vanno assomigliandosi sempre di più. E ciò che è peggio, com’è già accaduto per la televisione, tendono a omologarsi alle radio private senza avere neppure il logo per distinguerle. Non a caso ricorrono frequentemente alla diretta tv o al video streaming, come per colmare un vuoto o sopperire a una debolezza.
Ora è vero che viviamo nell’era della multimedialità. E nell’informazione moderna i contenuti scritti, audio e video si contaminano reciprocamente, in quel processo che i massmediologici chiamano “ibridazione”. Un “plus”, un arricchimento e anche una sfida professionale per chi fa il mestiere del giornalista o del comunicatore.
Ma la cosiddetta “ibridazione” non può arrivare al punto di alterare o modificare l’identità e la funzione della radio. Né tantomeno imbastardire quella che fa (o dovrebbe fare) servizio pubblico. Rispetto alla televisione, la radio privilegia per sua natura la parola sull’immagine, ciò che si dice su come si dice, la sostanza sull’apparenza.
Sta di fatto che Radio 1 e Radio 2 tendono a sovrapporsi nei palinsesti, con trasmissioni che forniscono notizie in chiave ironica, di “cazzeggio creativo” per dirla con Mister Allegri. Nella prima rete, si distinguono per qualità alcuni programmi d’informazione, tra cui al mattino Radio Anch’io condotta da Giorgio Zanchini, un modello di servizio pubblico. O al pomeriggio, Italia sotto inchiesta di Emanuela Falcetti. Né mancano nella seconda rete trasmissioni apprezzabili, come Non è un Paese per giovani con Massimo Cervelli e Tommaso Labate. Ma è la commistione con l’infotainment, quel genere ibrido che confonde l’informazione e l’intrattenimento dietro l’alibi della satira, a togliere credibilità ed efficacia anche all’esercizio legittimo della critica.
Non si può annunciare – per esempio – che il presidente del Consiglio è risultato “negativo” al tampone, per poi aggiungere con una battuta che non lo è soltanto al test anti-Covid. Oppure, scherzare su un tema sensibile come la religione, per sostenere in piena epidemia che il Signore è dovunque e quindi si può anche fare a meno di andare a messa, ignorando che per i credenti il rito della Comunione è il momento centrale della celebrazione. E tutto ciò tra frizzi, lazzi e sghignazzi dei due conduttori che si parlano addosso ed escludono il pubblico.
Va bene che la radio è uno strumento interattivo, capillare, destinato a “tenere compagnia” mentre l’ascoltatore sta facendo la doccia o la ginnastica, studiando o cucinando, guidando la macchina in viaggio o in mezzo al traffico. Ma proprio per questo sarebbe opportuno garantire la qualità tecnica dei collegamenti che troppo spesso s’interrompono di colpo o risultano disturbati e incomprensibili. Nessuno pretende una perfezione assoluta. Basterebbe, però, assicurarsi prima che le linee telefoniche funzionino regolarmente. Nel costo dell’abbonamento, è compreso il “bello della diretta”, non il brutto del frastuono.