La Stampa, 19 dicembre 2020
Intervista a Kylie Minogue
Ritagliare vie di uscita dall’ordinario, universi al neon generati da un disco che gira, una radio accesa o un live virtuale (recente è il concerto record in live stream con Dua Lipa da oltre 5 milioni di spettatori). Dagli esordi nella musica nel 1988 Kylie Minogue ha sbriciolato classifiche, venduto oltre 80 milioni di album e ottenuto, tra gli altri riconoscimenti, un Grammy e tre Brit Awards. La sua performance al Glastonbury del 2019 è stata la più vista in tv nella storia del festival e, ultimo traguardo in ordine di tempo, è stata incoronata prima artista donna con un album al numero 1 in classifica per cinque decadi consecutive nel Regno Unito.
Per più di quattro decenni Minogue ha infuso al pop abbondanti echi alla storia della dancefloor, da atmosfere da Studio 54 al retrofuturismo anni Zero. Il nuovo album, il quindicesimo lavoro in studio Disco, che include i singoli Magic, Say Something e I Love It, intercetta questi e altri significati in un’ode al rito collettivo di danze notturne e disco music. Sembra impossibile che parte del lavoro sia stato realizzato in lockdown nel salotto della casa di Londra trasformata in home studio, tra le foto di famiglia e le cover di album che sono riferimenti costanti, da Prince a Donna Summer. «L’essenziale è qui, proprio dove sono adesso durante l’intervista», spiega Kylie Minogue al telefono da Londra.
Come ha trasformato la sua casa in uno studio di registrazione?
«Quando ne parlo molti pensano a tecnologie avanzate ma sono partita da zero. Ho dovuto ripensare il mio modo di vivere lo spazio, questo mi ha trasmesso tanta energia. Tutto quello di cui avevo bisogno era vicino a me, trascorrevo le giornate nel mio soggiorno circondandomi di ciò che trovavo per isolare l’ambiente, persino coperte. Di settimana in settimana ero sempre più mio agio, cercavo di ascoltarmi di più e pensare alle piccole cose, avevo la mia penna per scrivere e il necessario per terminare la session senza interruzioni. Ho finito per amare tutto ciò, un angolo solo per me».
Il titolo dell’album è «Disco». Qual è il suo primo ricordo associato a quell’immaginario?
«Un vecchio giradischi dei miei genitori, lo conservo ancora. E un vinile di Donna Summer che ho ascoltato e riascoltato all’infinito. Poi ci sono stati Stevie Wonder, Bonnie Tyler e ancora gli Abba. Le loro hit si sentivano ovunque. Un’altra grande influenza è stato Prince, credo che da adolescente non avrei potuto venerare nessun altro di più. Ne ho recentemente parlato al New York Times, il disco di Purple Rain è qui davanti a me, dove ho registrato l’album accanto alle foto di famiglia».
E’ lì che ha iniziato a lavorare ai primi brani?
«Ho comunicato a lavorare al progetto l’anno scorso, ho continuato all’inizio di quest’anno prima che la pandemia lasciasse tracce sul presente. Quando il mondo è cambiato all’improvviso, ho costruito il mio nido, cosa che non avevo mai fatto prima. E’ stata la mia via di fuga dalla realtà, la mia distrazione, uno spazio salvifico in un momento in cui non sapevamo quando saremmo usciti, se dopo settimane o mesi. Non è stato facile, non potevo vedere nessuno né condividere con altri l’emozione. Essere in grado di rimanere creativa, però, è stato di grande aiuto».
Quale universo semantico ha voluto raccontare tra dancefloor e notti insonni oggi sempre più lontane?
«Il titolo Disco è nato prima dell’emergenza di quest’anno ed è rimasto invariato. Ora lo vedo sotto un’altra luce e penso al desiderio condiviso di evadere anche solo con la fantasia, desiderio oggi potentissimo. Ovviamente l’omaggio principale è alla disco music degli anni Settanta e Ottanta, mi sono chiesta perché avesse avuto un successo planetario e un fascino su generi e stili successivi. Credo che sia in parte per quel senso di nostalgia che intercetta e amalgama in una melodia nota, ma anche per una certa dose di immaginazione che ci permette per vedere aldilà del reale. Lasciare che le cose accadano, abbandonarsi al ritmo…».
Crede che sia stato così fin dagli inizi?
«Certo. Le origini della disco music sono ugualmente interessanti, la gente ballando cercava un senso di appartenenza, un modo per essere diversi da sé o meglio più di sé. Spesso accadeva in risposta a difficoltà e momenti bui. Credo che questa sia un’altra importante ragione per cui la disco è un’influenza fondamentale. E’ composta da elementi dicotomici e li racchiude tutti nel suo Dna».
In questo album è più celato, in «Golden» del 2018 il riferimento era allo Studio 54….
«Ovviamente non ci sono mai stata, ma l’eredità dello Studio 54 è ovunque. E’ come se potessimo ancora fantasticare di essere lì, basta guardare le foto d’archivio di Bianca Jagger e Andy Warhol. E’ un sogno incredibile».
Ha parlato di una dose di nostalgia, crede ci sia un significato collettivo associato a questa parola? Ne aveva scritto dieci anni fa il critico musicale Simon Reynolds…
«Non penso possa esistere qualcosa che non sia correlato a un vago sentimento di nostalgia. Nella quotidianità si è nostalgici quando un simbolo evoca situazioni passate. Sappiamo che la musica è uno dei linguaggi più evocativi, è impossibile non avere rimandi. Non ci sono solo omaggi, certo, ma anche novità, nonostante tutto il passato gioca un ruolo nel plasmare il futuro».
A proposito di futuro, cosa sarà parte del suo?
«Mi piacerebbe esibirmi dal vivo, davanti al mio pubblico, so che non sarà subito. In questi mesi ho allenato la mia pazienza e sono pronta a rimanere paziente ancora e aspettare il tempo necessario. Poi vorrei andare in Australia, naturalmente quando i viaggi saranno consentiti e sicuri, e rivedere la mia famiglia. Mi manca la libertà di tornare ma so che sono tra le persone fortunate che in questo periodo hanno potuto lavorare. Credo che non dimenticherò mai questa esperienza, realizzare parte dell’album in lockdown».
Come ricorda l’ultimo live?
«L’ultimo concerto è stato a São Paulo in Brasile, il pubblico era così partecipe che a stento sentivo la mia voce nelle prime canzoni. Ho cristallizzata la memoria di quell’attimo, è stato molto emozionante. E’ un ricordo dolceamaro se penso ai mesi successivi...».
Uno dei singoli si intitola «Magic». Cosa significa per lei questa parola?
«Non la chiamerei magia ma possibilità. Sono piccoli miracoli quotidiani, segni inaspettati, qualcosa che non puoi prevedere. Momenti così hanno costellato tutto il mio percorso, ricordo per esempio quando giovanissima ho ottenuto il mio primo lavoro come attrice in tv, mia madre mi ha portato al provino ma avrebbe potuto benissimo non essere successo nulla di tutto ciò. Sono come sliding doors, ne attraversiamo tantissime».