L’anonimo degli anni Settanta?
L’apprensivo in cerca di affermazioni degli anni Ottanta? L’artista dal successo planetario degli anni Novanta in poi?
Qualunque cosa dica, statene certi, ha una risposta di riserva, presumibilmente opposta alla prima. Ha compiuto sessant’anni da pochi mesi. Considero la sua arte non più scandalosa di altre; e neppure mi sembra così contemporanea. Vive di sospensioni temporali e di propensione autistica. Ogni suono che sta per esprimere resta muto, come un film degli anni Dieci del Novecento. Eppure è carico di pathos e aggressività.
Qualcosa di esteticamente indefinibile. Senza titolo.
Spesso le tue opere hanno come dicitura "untitled". Che cosa vuoi suggerire: libertà da chi guarda o libertà di chi guarda?
«Suggerisce che sono stato così stolto da non riuscire a trovare un bel titolo!».
Non ci credo.
«Perché? Penso che sarebbe molto meglio se non si chiamassero Untitled: sono creature zoppe, in attesa di giustizia. È tutta la vita che predico bene e razzolo male. È come se avessi scritto un libro e non avessi il titolo da mettere in copertina».
Forse vuoi solo far parlare l’immagine. L’immagine si autopromuove, no?
«Sarebbe bello se fosse così, quello che dici allevia il mio rimpianto».
Rimpiangi spesso quello che non hai fatto?
«I miei rimpianti sono senza lacrime».
Visto che hai compiuto 60 anni rimpiangi qualcosa della tua giovinezza?
«Per come sono andate le cose direi di no».
Provieni da una famiglia modesta. Hai perfino dichiarato che in alcune circostanze tua madre ti picchiava. Il Cattelan di allora spiega quello di oggi?
«So di certo che ho raccolto una collezione di episodi educativi poco edificanti per come oggi concepiamo il rapporto con l’infanzia. Ricordo che sul muro della mia classe, in prima e seconda elementare, c’era un battipanni. Non l’ho mai visto in funzione ma non credo che fosse lì per sbattere la polvere dei materassi».
All’epoca, diversamente da oggi, era molto comune che i bambini più vivaci venissero redarguiti fisicamente.
«Mi fai venire in mente un’opera in cui raffiguri un alunno con le mani sul banco, trafitte dalle matite».
Davvero la scuola è stata per te una grande sofferenza?
«Credo faccia parte della vita scolastica la sofferenza. Perché è una condizione umana che nasce dal confronto con gli altri, dalle cose che non sai e che devi imparare a tue spese».
Avresti voluto che fosse diverso?
«Sì, certo, ma credo che non cambierebbe molto per me se dovessi tornarci oggi. Dopotutto non credo di essere cambiato. Quello che mi ha sempre turbato è il rapporto insegnante-allievo: in qualsiasi altro contesto uno può alzarsi e andarsene. A scuola no. Continuo a credere che sia sbagliato il "salire in cattedra", anche perché non si smette mai di imparare e i docenti dovrebbero essere i primi a ricordarselo: quando abusano del loro potere, quando negano uno scambio alla pari. È così che si creano i mostri».
In fondo anche l’artista ha qualcosa di mostruoso che avvolge in una specie di mistero.
«Forse ne ha paura, forse non tutti si sentono come il "Gobbo di Notre Dame" a guardia di uno spazio sacro.
Forse un artista è solo reticente a mostrarsi per intero».
È l’aspirazione a voler essere invisibili. Anche tu in fondo aspiri a questo stato.
«In che modo?».
Per esempio pubblicizzando le tue opere con alcune false informazioni. Nel mentre ti dai e ti offri ai riflettori in realtà ti stai sottraendo.
«Non penso che girino false informazioni intorno alle mie opere, per il semplice fatto che ogni interpretazione, se è a questo che ti riferisci, è valida a prescindere che l’abbia pronunciata l’artista. Io stesso sono alla ricerca del significato di quello che faccio, anche quando l’opera è finita e presentata in una mostra. Non sono sicuro che produrrei più nulla se sapessi dall’inizio, in modo chiaro e lineare, dove sto andando a parare».
Accennando alle false informazioni in realtà ti volevo tirare dentro al discorso della pubblicità. Warhol fu il primo a sdoganarla. Tu in che rapporto sei con la pubblicità?
«Mi interessa per come manipola il gusto e per come è in grado di vendere se stessa, anche senza contenuto».
Ma alla fine nel rapporto arte-pubblicità chi divorerà chi?
«Continueranno a correre una accanto all’altra; ogni tanto lanciandosi uno sguardo di intesa, ogni tanto tirandosi i capelli. La migliore pubblicità sa essere perforante, può entrare a far parte del linguaggio comune molto più facilmente dell’arte. Ma la peggior pubblicità ha vita breve. L’arte non raggiunge nessuno di questi estremi, anche se per ambizione o incapacità tende alternativamente verso entrambi».
Una tua opera "Il Bel Paese" richiama esplicitamente la marca di un noto formaggio. Come è nata?
«Sinceramente? Non c’è voluto molto: è stato sufficiente il vassoio di un pasto intercontinentale in classe Economy mentre attraversavo l’Atlantico».
Se pubblicità e arte sono soprattutto immagine che definizione daresti dell’immagine?
«Una droga di cui stiamo facendo overdose».
Forse è la sua potenza che ci condiziona e che ci rende dipendenti?
«Potenza implica forza, aggiungerei la parola seduzione. Quello che mi affascina di più è che usiamo le immagini come se fossero reali, ma non lo sono. Pur sapendolo, continuiamo a farci ingannare. Penso anche che tutto questo sia intrinseco alla natura umana, fa parte del bisogno di credere a ciò che vediamo».
Che rapporto hai con la fotografia?
«Ottimo, almeno fino a quando non mi trovo davanti o dietro l’obiettivo».
Con il cinema?
«Sono un avido consumatore di storie, sia al cinema sia sui libri. Ogni volta che vedo un capolavoro mi trovo a pensare alla testa del regista. Essere capaci di tenere insieme tutti quegli ingredienti – scrittura, luce, inquadrature, movimenti della macchina, gestione degli attori e infine montaggio – è la cosa più simile ad avere i super poteri che io riesca a immaginare».
Un artista non deve coordinare un gruppo, non ha dietro un mastino come può essere un produttore. Non deve rispettare tempi di produzione e la storia è la sua e basta. In un certo senso l’artista è un uomo senza qualità, non nasce come industria culturale, anche se rischia di finirci.
«Il romanzo di Musil è semplicemente fantastico. Ma io penso che l’assenza di qualità ti consenta di fare un sacco di cose. Io la vivo come stimolo per una ricerca personale. In fondo il "grado zero" è la condizione di partenza di ogni artista».
Vuoi dire che il grado di libertà è alla base del tuo lavoro?
«Non so mai che progetto farò dopo, sono un ricercatore senza teoria e senza metodo. La mia carriera è fatta di incidenti di percorso che si sono rivelati interessanti, a posteriori. L’arte, a differenza della pubblicità, non deve vendere niente; ma ancora più importante non deve voler dire niente. È una serie di domande senza risposta, condensate in una manifestazione fisica».
È un atteggiamento antieroico. Mi fai venire in mente Hegel, fu il primo a parlare della morte dell’arte. Ma non voleva dire che davvero l’arte fosse morta, bensì che era impossibile essere tragici, al più si è comici.
«Il segreto è non prendersi troppo sul serio, sia quando senti di essere tragico, sia quando vuoi far ridere».
La tua opera è spesso accostata al beffardo, al parodico, al grottesco, al capriccio e al raccapricciante. Ti riconosci?
«Trovo difficile vedermi con gli occhi degli altri. Per quanto ci provi sarà sempre un’esperienza straniante, soprattutto per uno come me che fa fatica la mattina a riconoscere se stesso allo specchio. La sera è più semplice, perché quello che ho fatto durante la giornata mi definisce: posso tirare le somme delle mie azioni, capire cosa ci sia da migliorare, dove investire il mio tempo la mattina successiva».
Sembri molto programmato.
«Non so dove va la mia arte, ma io devo sapere dove sto andando».
Che cosa pensi del fatto che oggi lo scandaloso e il provocatorio rischiano di diventare le nuove forme del conformismo?
«Dipende da cosa intendi. Se parliamo di etichette e titoli di giornali sì, assolutamente: i media sono responsabili di questa deriva, dando voce allo scandalo del giorno, dimenticato il giorno dopo. Tutto per ottenere più click, visualizzazioni, pubblicità. Se parliamo di cosa sia davvero provocatorio, penso che l’oltraggio abbia un ruolo fondamentale nella crescita di una società, perché ci spinge a interrogarci su certi limiti e convenzioni che, attraverso la discussione, ci scopriamo pronti a superare».
La parola oltraggio si può declinare in molti modi.
Tu hai sdoganato l’idea della morte: animali imbalsamati, bare, impiccagioni, accidenti. Cos’è per te l’esperienza della morte: un modo per affrontare i propri traumi?
«Forse ho un problema con l’esperienza della morte, non sei il primo che me lo fa notare. L’arte è un modo per liberarmi dei miei problemi, dandoli agli altri in forma di opere. Nel suo essere inutile cela un potere taumaturgico, sia per chi la fa sia per chi la osserva. È il potere delle cose superflue: ci rassicurano, ci sollevano, ci fanno pensare di essere immortali. Sono un antidoto contro la paura della morte».
C’entra qualcosa aver lavorato come infermiere e praticato obitori?
«Mi ritengo fortunato per aver fatto quelle esperienze.
Avere a che fare con i malati e poi con i morti mi ha insegnato a dare il giusto peso a ogni evento della vita, a rimettere tutto nella giusta prospettiva».
Che rapporto hai con la religione?
«Sono cresciuto immerso nell’educazione cattolica fino al midollo. Non importa quanto tempo sia passato, è come il peccato originale: un fardello che ti porti dietro e non puoi liberartene».
Negli anni Ottanta eri poco conosciuto. Soffrivi per non essere famoso o soffri oggi per esserlo troppo?
«Non direi che ho mai sofferto, ho sempre pensato che la capacità di arrivare dove volevo dipendesse solo dalla mia determinazione e mi sono mosso di conseguenza. È stata una bellissima avventura fino ad oggi e mi ritengo un privilegiato. La domanda che non mi abbandona mai è: quando finirà?».
Te ne farei un’altra, quando tutto questo è cominciato. È vero che giravi con un motorino "Ciao" ed eri capace di coprire anche 200 chilometri?
«Non esattamente: era un "Califfo" e ho fatto 3000 chilometri in sette giorni. Avevo 17 anni e facevo l’apprendista contabile. Mi avevano dato una settimana di ferie. Sono uscito di casa dicendo a mia madre che andavo in Spagna, non credo che avesse capito che mi riferivo alla nazione. Ho fatto Padova-Barcellona con le taniche di benzina al posto della valigie, perché il buon "Califfo" aveva un serbatoio da un litro. Funzionava bene in discesa e in piano, ma in salita andava solo a spinta. La vibrazione era tale che la mattina mi svegliavo tremando».
Sei pronto per scrivere un bel romanzo di avventure giovanili. Hai annunciato tempo fa di non voler essere più artista. Anche questo è stato un modo di mentire?
«Non ho fatto altro che essere me stesso, con tutte le mie debolezze e qualche punto di forza. Come tutti, almeno credo, alterno giorni in cui mi sento invincibile e sicuro di quello che sto facendo, e altri in cui mi sembra di non andare da nessuna parte. Per quanto uno possa ragionare, ponderare e valutare, gli errori si fanno e se ne pagano le conseguenze. Non mi vergogno a dire: ho sbagliato. Credo sia molto più grave non aver tentato».