Sette, 18 dicembre 2020
Intervista a Bong Joon-Ho, il regista di Parasite
Il 2020 per Bong Joon-ho non è stato solo l’anno del Covid, come per tutti, ma pure l’anno del trionfo a Hollywood con Parasite. I quattro Oscar di febbraio sono un grande riconoscimento per il cinema sudcoreano (ndr. qui l’articolo di Stefania Ulivi sull’inarrestabile diffusione della «Parasite-mania»), che però all’inizio di dicembre ha perso il regista Kim Ki-duk, Leone d’oro a Venezia con Pietà, morto a 59 anni in Lettonia. Di Bong Joon-ho in Italia è uscito il libro della sceneggiatura di Parasite (edito da La nave di Teseo), un viaggio dentro il laboratorio del regista che in questo film ha preso tre famiglie, una ricca e due povere, per frullarne con brutale fantasia bisogni e desideri, dentro una villa chic piena d’ombre. La lotta di classe è claustrofobica, come nel treno di Snowpiercer (2013), ma è meno lineare, più complessa: mostra sia la dialettica servo-padrone sia la guerra tra poveri che ambiscono al ruolo di servi, indispensabili per chi finisce con il dipendere dai loro servigi. Chi sono i parassiti? È l’ambiguità del regista che nel noir Memorie di un assassino (2003) abbrutisce i buoni e infierisce sulle vittime.
Parasite è una commedia nera con risvolti da thriller dove si ride di situazioni grottesche e si soffre in frangenti comici. Lo intervistiamo via web da Seul, e ci invita a guardare al futuro con fiducia, nonostante il momento difficile.
«A volte mi sorprende quanto possa essere ottimista la mia mentalità, ora che siamo nel mezzo di questa crisi. Presto il Covid farà un passo indietro. Molti dicono che non saremo in grado di vivere il mondo come prima, ma è un’esagerazione. Il Covid passerà, avremo più vaccini tra cui scegliere. Nelle mail con gli amici mi faccio forza concludendo così “il Covid andrà via e il cinema ritornerà”».
Nel film collettivo del 2008 Tokyo! lei racconta di un hikikomori, che vive auto-recluso, innamorato di una ragazza che consegna la pizza a domicilio. Una storia da Covid. Quali fatti di cronaca l’hanno colpita nel 2020?
«Le partite di calcio. Lo amo, non è una novità guardarlo,ma è affascinante vedere che negli stadi vuoti i giocatori di tutte le squadre, dalla Serie A alla nostra K-League, danno tutto e festeggiano i gol come se gli spettatori ci fossero davvero».
Il regista Bong Joon Ho
Qual è l’immagine che l’ha spaventata di più del 2020?
«Gli incendi, soprattutto quelli che si propagano a macchia d’olio. In California e in Australia. Guardare le fiamme avvolgere tutto mi spaventa. Possibile che la Natura cerchi di vendicarsi così? Temo per i danni catastrofici che l’ambiente sta subendo. Nel debutto alla regia di Paul Dano, Wild Life, c’è una scena di incendi a macchia d’olio. Sono le immagini che mi hanno impressionato di più in questo 2020».
Agli Oscar nel suo discorso ha detto, omaggiando Martin Scorsese, che «per essere creativi bisogna essere personali». Cosa c’è di lei in Parasite?
«C’è un momento in cui il figlio della famiglia povera va a casa della famiglia ricca, come tutore, e l’enorme porta di metallo si apre da sola con un leggero cigolìo, nel loro giardino. Quel momento è simile all’atmosfera, ai suoni, alla luce del sole e al sentimento del tempo in cui io, da studente universitario, visitai una famiglia molto ricca che mi assunse come tutor per il bambino. Ho rievocato i miei ricordi per girare questa scena».
La Corea ha vissuto in prima linea le divisioni della Guerra fredda. Suo nonno non è più tornato dal Nord e alcuni suoi familiari si sono incontrati dopo decenni. Oggi le divisioni sono interne al capitalismo, poveri e ricchi, periferia e centro, campagna e città. Nei suoi film lei mette le classi sociali assieme. Qual è l’esperienza più interclassista che ha vissuto?
«Ai tempi del college c’era molta diversità sociale nelle classi. Uno spettro di classi sociali ampio rispetto ad oggi. Alcuni provenivano da famiglie ricche di grandi città, mentre altri provenivano da famiglie povere di piccole città. Noi superavamo queste differenze studiando insieme e bevendo, uscendo insieme. Oggi credo non sia così facile per gli studenti come fu per noi, le distanze sociali sono aumentate. Il capitalismo prima di essere una categoria sociologica, è qualcosa di concreto: le nostre vite».
In Parasite alcune scene stimolano l’immaginazione olfattiva, a partire dal bagno del seminterrato. Quale odore associa alla paura e quale a gioia o felicità?
«Negli Anni 80, quando andavo all’università, si poteva facilmente sentire l’odore dei lacrimogeni non solo negli atenei ma in tutta Seul, dove c’erano scontri tra studenti e poliziotti, che poi erano coetanei, solo dall’altra parte della barricata. Quell’odore era quotidiano. Sono passati più di 30 anni dall’ultima volta che l’ho annusato, ma ricordo ancora com’è, vividamente, a volte lo sogno. L’odore di gioia e felicità è legato a ciò che è l’opposto dei gas. Pane fresco, i chicchi di caffè».
Nei suoi film paura, ansia e senso dell’umorismo sono mescolati. Cosa le fa paura, provoca ansia e cosa la fa ridere oggi?
«Se scrivo scene fino a tardi e mi viene il mal di schiena poi temo che il dolore non se ne vada più. Disegnare le scene invece mi aiuta a combattere l’ansia, così quando giro so dove sto andando. Poi mi calma guardare a casa un film proiettandolo, vedere i titoli, tutti i nomi di chi ha lavorato al film: vedere che i film esistono, che coprono un intero muro calma la mia mente. Sulle risate: rido quando sono felice delle battute che scrivo».
Nei suoi film i registri si mescolano, comico e tragico, battute e insulti: regna l’ambiguità dei personaggi e delle situazioni. Com’è il suo carattere?
«Sono un po’ scisso, divisivo, mi distraggo facilmente. Da bambino quando mi trasferii a Seul, a scuola, parlavo con accento di Taegu, dove ero nato, poi ho preso l’accento di Seul e a casa suonava strano. Sono anche debole di cuore e le persone di cuore debole sono emotivamente troppo timide per scegliere cosa fare. Questa mentalità compositiva non aiuta, ma non può non riflettersi nei film. Chi è più estroverso e istintivo non deve necessariamente sentirsi in questo modo, può scegliere liberamente. È una differenza inevitabile».
Sentimenti contrastanti animano anche Okja, una favola distopica dove si mescola la zoofilia, per cui cerchiano la purezza nel rapporto con gli animali, e la zootecnia che trasforma gli animali in carne per nutrirci. Qual è il suo rapporto con gli animali e la carne?
«Non sono necessariamente contrario al consumo di carne, ma va ridotto. Ridurre gli allevamenti intensivi industrializzati, per l’ambiente e il benessere nostro e degli animali. Una missione inevitabile».
Harvey Weinstein, a capo della Miramax, voleva tagliare alcune scene di Snowpiercer, tra cui quella del pesce sventrato da una guardia per intimidire i ribelli. Lei ha raccontato che salvò la scena dicendo che era un omaggio a suo padre, pescatore. «La famiglia è importante» disse Weinstein. In realtà suo padre era un grafico e docente di design industriale. Dice spesso bugie? Si è mai pentito?
«Non mento mai. Dunque non posso pentirmi di aver mentito su qualcosa».
In Parasite ascoltiamo la canzone di Morandi, In ginocchio da te, che piaceva a suo padre. Ha un ricordo vivo di lui?
«La generazione di mio padre ascoltava molte canzoni italiane e francesi. Lo ricordo felice quando metteva gli LP per noi. Non capivamo le parole, è stato un caso che un personaggio fosse in ginocchio quando si sente Morandi. Di mio padre ricordo quando dipingeva così concentrato che io potevo osservarlo da dietro le spalle. Il ricordo è più vivido ora rispetto a quando è morto, tre anni fa».
Nel libro che contiene lo storyboard di Parasite, con le scene disegnate a mano, emergono i cambi di rotta della storia, che prima riguardava due famiglie in lotta tra loro, poi diventano tre. Ricorda una modifica in particolare?
«Ero a Vancouver quando scrissi la sceneggiatura così com’è ora. Uso l’iPad, l’applicazione per gli appunti, li prendo dove capita. La scena dove padre e figlio comunicano in codice morse, e il figlio gli promette che comprerà una casa, m’è venuta in mente guardando il semaforo a un incrocio, aspettavo il verde. Ricordo che ho pensato che il finale doveva essere triste».
Per il lancio di Parasite, che ha meccanismi di suspense in stile Hitchcock, lei era preoccupato per gli spoiler nelle recensioni, perché raccontarne la trama rischiava di svelarla. Qualcuno ha mai rovinato una storia raccontandole il finale?
Ovviamente avvisiamo chi ci legge: nella sua risposta c’è il rischio di uno spoiler: chi non vuole rischiare, può saltarla.
«L’episodio che più mi ha colpito non è personale, ma è diventato un leggendario caso di spoiler avvenuto in Corea del Sud. C’è un cinema nel cuore della città, chiamato Seul Cinema, dove proiettavano Il sesto senso di Night Shyamalan la fila era lunga, fino in strada. A un certo punto passa un adolescente che si sporge dal finestrino di un autobus e grida alla folla: “Bruce Willis è un fantasma!”».
Il suo Memorie di un assassino è ispirato alla storia vera del primo serial killer in Sud Corea, nella località di Hwaseong, dove a fine Anni 80 uccise diverse donne, sfuggendo alla polizia. Il finale del film, uscito nel 2003, era assolutamente aperto: lo spettatore non ha certezze sul volto dell’assassino, descritto dall’unico testimone come «un volto come tanti». Nel 2019, la svolta: il killer viene individuato. Lei cosa ha provato quando si è scoperto chi è?
«Quella storia è stata una mia ossessione, ho intervistato detective, giornalisti, parenti delle vittime. L’unico che non potevo intervistare era l’assassino. Non si sapeva chi fosse. Avevo una serie di domande che potevo fargli, ho immaginato la sua faccia dentro di me. Quando ho visto la sua faccia sui quotidiani, è stato molto complicato».
Quali progetti ha per il 2021?
«Fare molti film. Tanto il Covid passerà e il cinema tornerà».