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 2020  dicembre 17 Giovedì calendario

Parla la poliziotta infiltrata tra i pedofili

Per due anni, ogni giorno, la sua mente ha costeggiato abissi. Quasi sempre vinceva l’istinto del poliziotto, e la voglia di fare giustizia superava lo schifo di quelle immagini. «Altre volte invece — racconta l’agente Alice — arrivavano, senza preavviso, i giorni del troppo».
Troppo disturbante tenere gli occhi su un neonato di sei mesi torturato da un adulto. Troppo alienante barattare foto di bambini nudi per altre foto di bambini nudi. Troppo frustrante assistere allo smercio di una sessualità deviata e deviante.
Troppo per tutti. E troppo per lei, poliziotta incinta. «Se sono riuscita a rimanere infiltrata nelle chat senza andare fuori di testa è stato grazie ai miei colleghi. E al supporto delle psicologhe messe a disposizione per chi fa servizi come il mio».
Alice (nome di fantasia), 30 anni, da poco diventata mamma, è una delle poliziotte sotto copertura che ha permesso alla procura di Milano (pm Eugenio Fusco, Letizia Mannella, Cristian Barilli, Giovanni Tarzia) di oscurare 159 gruppi su Telegram e Whatsapp frequentati da utenti che si scambiavano tra loro foto e video di abusi su minorenni. È la più grossa operazione degli ultimi anni in questo settore, condotta dagli investigatori della Postale di Milano e del Centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia online guidati dalla direttrice Nunzia Ciardi: 55 mila file catalogati e sequestrati, 11 mila utenti segnalati, 432 identificati con nome e cognome. Ottantuno di questi sono italiani, insospettabili come può essere un ottico napoletano di 71 anni, di giorno collaboratore universitario, di notte lupo sociopatico nascosto dietro un nickname. Eseguite perquisizioni in 53 province italiane, arrestate 17 persone. Un successo, da un punto di vista investigativo. Ma solo l’agente Alice sa quante tossine lascia nella testa e nell’animo un’indagine come questa. «Ho iniziato il lavoro quando ero in gravidanza e l’ho terminato quando mio figlio era nato. Tornare a casa e abbracciarlo mi ha motivato ancora di più. Osservare quegli indifesi, creature acerbe e lontane dal concetto di sessualità venir trattate così, ha suscitato in me un senso potentissimo di protezione. Mi sono ritrovata ad appoggiare le mani sul monitor, nell’illusione di poterli coprire e separarli dai corpi nudi degli adulti».
Come è iniziata l’indagine?
«Dalla segnalazione di un gruppo Telegram in cui gli utenti si professavano giustizieri anti-pedofili, ma che in realtà si scambiavano i link delle chat. Così siamo entrati, con identità di copertura. Devi essere invitato da qualcuno che ti gira il link. Nei gruppi si parla una sorta di slang, si usano parole chiave per far capire agli altri cosa si cerca, quali soggetti, quali fasce di età. Ogni tot di giorni gli amministratori ti chiedono una prova di verità, ossia di pubblicare materiale pedo-pornografico "inedito". Se non lo fai si insospettiscono e ti buttano fuori. A parte una ventina di gruppi stabili, gestiti da associazioni di delinquenti, la maggior parte cambia spesso indirizzo e nome, creando un sistema di scatole cinesi».
Altre regole?
«L’anonimato assoluto. È vietato fare domande personali o accenni a dettagli che rendano qualcuno riconoscibile. Si parla per lo più in inglese o in spagnolo. Eravamo abituati a forum di pedopornografia sul Deep Web, molto più difficili da raggiungere. Invece questi girano su comuni servizi di messaggistica».
Che impressione si è fatta dei frequentatori?
«È complicato dirlo, perché il dialogo lì dentro è tutto orientato al baratto.
Ti chiedono: hai foto di bambini di tre anni? Hai qualcosa sui neonati?
Domande orribili e incomprensibili.
In tutti questi mesi non sono riuscita ad abituarmi alle foto. E arriva il giorno in cui dici: oggi non ce la faccio».
E cosa succede a quel punto?
«Le linee guida stilate dai nostri psicologi ci permettono, anzi ci impongono, di staccare e tornare a casa. Ci insegnano anche ad elaborare le emozioni. Possiamo parlare con gli psicologi tutte le volte che lo riteniamo utile, e lo possiamo fare in anonimato, via chat. E poi tra colleghi ci diamo una mano per coprire i turni».
Cosa fa un infiltrato nelle chat?
«Raccoglie elementi di prova, per scoprire chi si cela dietro i nickname. Senza farsi condizionare dalle valutazioni personali».
Non è facile.
«No. Però sai che stai fornendo un servizio alla società, sai che puoi fermare le mele marce. E questo ti spinge a superare l’impatto emotivo violentissimo della foto di un bambino abusato».