Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 16 Mercoledì calendario

Ricostruzione dell’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh

L’ultimo giorno di vita di Mohsen Fakhrizadeh inizia a Rostam Kola, a nord ovest di Teheran. Lascia la località per raggiungere Absard, a circa 230 chilometri, nonostante la scorta lo abbia avvisato di una segnalazione di pericolo. Con lui ci sono la moglie e undici guardie dell’unità speciale Ansar-ol-Mahdi distribuiti in un convoglio di 3-4 auto. Alle 14.30 sono a Absard, imboccano la via omonima, un’arteria veloce. È il teatro dell’agguato, seguito da ricostruzioni diverse. 
Partiamo dalla prima, lanciata da un giornalista iraniano residente a Londra. Parcheggiato sul lato destro della strada c’è un pick-up carico di legna che esplode al passaggio del primo mezzo, costringe il convoglio a fermarsi. Entrano in azione i sicari, gli agenti reagiscono, uno offre il suo corpo come scudo. Ma per il padre del piano atomico iraniano non c’è scampo, è raggiunto – preciserà in seguito uno dei figli – da 4 o 5 proiettili «speciali» sparati da vicino. Un testimone, intervistato dalla tv, conferma la sequenza. Infine un dettaglio. Nella zona vi sarebbe stato un black out attribuito ad un sabotaggio del team. 
La seconda ricostruzione — con il timbro dell’ufficialità – scompagina tutto, anche se non è priva di confusione. L’auto della scorta è in avanscoperta, risuona un rumore sordo. Un oggetto (o proiettile) potrebbe aver danneggiato il parabrezza della Nissan dello scienziato. Che ordina all’autista di fermarsi e scende dalla vettura blindata con al fianco un agente. Un’imprudenza. Appena fuori è falciato dalle raffiche di un’arma automatica piazzata su un pick-up fermo a 10-15 metri. Le fonti ufficiali, aggiungendo ogni giorno un pezzo, la descrivono così: «radiocomandata, via satellite»; ha sparato 13 proiettili; munita di un sistema per il riconoscimento facciale e intelligenza artificiale; in dotazione alla Nato, provvista di silenziatore. Gli assassini invisibili distruggono con una carica il camioncino, restano i rottami, compresi pezzi di armi israeliane (tesi ufficiale). Una missione completata in tre minuti, attribuita al Mossad e complici interni. Partono le indagini, annunciano i primi di arresti e, ieri, l’«identificazione di tutti i colpevoli». 
La narrazione non chiude la partita, infuria la lotta dei lunghi coltelli. Vi partecipano apparati di sicurezza, politici, esuli. La storia della mitragliatrice è giudicata da alcuni un tentativo dei Guardiani di giustificare il fallimento. I loro rivali dell’intelligence li incalzano: vi avevamo avvertiti, sapevamo anche del posto esatto dell’imboscata. C’è la caccia alla talpa. La famiglia ricorda che Fakhrizadeh è morto da martire, con la moglie al suo fianco. Lei ha sul volto i segni delle schegge. Gli esperti indipendenti mostrano cautela sulla teoria dell’arma in remoto, alcuni non lo escludono a priori, altri ancora pensano che la verità sia nel mezzo, con qualche trucco che abbia sorpreso tutti. 
L’aereo di Netanyahu T7-CPX. La sigla identifica il Gulfstream usato dal primo ministro israeliano per le missioni private che dovrebbero rimanere private. Decolla alle 19.30 dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, atterra a Neom, 50 chilometri di deserto che galleggiano in mezzo al Mar Rosso. Il primo ad accorgersi della rotta inusuale è un giornalista del quotidiano  Haaretz: Avi Scharf è un flight tracker, gli appassionati che monitorano via Internet i voli nei cieli di tutto il mondo, e rilancia via Twitter lo stupore per quel collegamento tra due Paesi nemici. 
Neom è una metropoli che ancora non c’è: il nome viene dalla combinazione di neo (nuovo) e la parola araba mustaqbal, futuro. Mohammed Bin Salman, il principe ereditario saudita, lo considera il suo regalo all’umanità – «un salto di civilizzazione» – un balzo dal costo di qualche miliardo di dollari che sarà gestito dall’intelligenza artificiale per competere con i grattacieli di Dubai. Per ora sono pochi palazzi piantati sulla terra ocra, più set polveroso di Blade Runner che slancio evolutivo.
Quel 23 novembre l’aereo da 14 posti resta sulla pista per 4 ore. Abbastanza perché Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il principe possano discutere delle possibili alleanze da lì a qualche mese e delle possibili mosse da lì a qualche giorno. Gli israeliani e gli americani confermano l’incontro, i sauditi smentiscono: troppo presto per ufficializzare una relazione rimasta clandestina.
Al fianco di Netanyahu c’è Yossi Cohen, il capo del Mossad, uno degli uomini che il leader della destra considera più fidati fino al punto di averlo indicato come un possibile successore. Ha un profilo diverso dai boss che lo hanno preceduto alla guida dell’Istituto. Più pubblico, meno segreto: quando nel 2018 il premier israeliano annuncia che gli agenti sono riusciti a recuperare i dossier del programma nucleare iraniano, ai reporter arriva la conferma da fonti anonime che l’operazione sia stata pilotata da Cohen stesso. Il colpo di intelligence è presentato dal primo ministro con un colpo di teatro in diretta mondiale: sfila come un mago il drappo nero che nasconde i faldoni dell’archivio e illustra documento dopo documento i piani del progetto Amad (Speranza). Soprattutto ne identifica quello che i servizi israeliani considerano il capo e promotore: Mohsen Fakhrizadeh.
Cohen arriva al vertice con la promessa di riinstillare negli 007 la spavalderia per i piani audaci e soprattutto di evitare imbarazzi spionistici come quello di dieci anni fa: undici degli agenti nella squadra spedita in un hotel di Dubai a uccidere Mahmoud al Mabhouh, considerato il trafficante d’armi in capo per Hamas, erano stati compromessi dopo l’omicidio dalle telecamere di sorveglianza. Cambia il modus operandi: il Mossad sotto di lui usa sempre meno operativi israeliani e preferisce coordinare piccoli gruppi di mercenari internazionali o locali, ognuno incaricato di eseguire un pezzo del piano e ignaro di quello che stanno facendo gli altri. Le stesse tattiche con cui sarebbe stato ucciso Fakhrizadeh.
Il «regalo» per Biden Netanyahu non è stato il primo a puntare i riflettori su Mohsen Fakhrizadeh. Nel 2007 lo scienziato fu posto sotto sanzioni Onu. Nello stesso anno l’intelligence Usa dichiarò in un rapporto: «Crediamo fermamente che il programma di armamenti nucleari di Teheran sia stato sospeso nell’autunno del 2003». Gli Stati Uniti avrebbero raggiunto quella conclusione dopo aver intercettato email e telefonate dello scienziato sospettato di essere negli anni Novanta il capo del programma per lo sviluppo di armamenti nucleari, ovvero di un possibile passaggio dalla ricerca civile a una testata atomica: apparentemente, si lamentava perché gli avevano tagliato i fondi. La Repubblica Islamica ha sempre negato l’esistenza di un programma di armamenti nucleari e afferma che gli scopi sono puramente civili. Poco dopo l’accordo sul nucleare del 2015 con cui l’Iran accettò di congelare il suo programma in cambio della rimozione di sanzioni internazionali, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica chiese di incontrare Fakhrizadeh. Ma le richieste vennero respinte.
Lo scienziato sessantenne, membro dei Guardiani della Rivoluzione che aveva combattuto nella guerra Iran-Iraq, manteneva un basso profilo. Dopo la morte, la Guida Suprema Ali Khamenei lo ha definito «uno dei più importanti scienziati nei campi del nucleare e della difesa», mentre l’ambasciatore all’Onu Majid Takht Ravanchi ha sottolineato che aveva ideato un test per il Covid-19 e stava lavorando al vaccino. Nel 2015 il presidente Hassan Rouhani gli aveva dato un riconoscimento per il suo lavoro. Ma è stato diffuso un audio inedito in cui si sentiva Fakhrizadeh dubitare dell’intesa: «Non possiamo fare compromessi con l’America». Sia conservatori che moderati rivendicano il martire come «uno dei loro». 
Molti in patria lo paragonano al generale Qassem Soleimani, ucciso dagli americani in Iraq il 3 gennaio 2020. Ed è entro l’anniversario dell’assassinio di Soleimani che gli esperti occidentali si aspettano una rappresaglia. Gli analisti vicini alla nuova Amministrazione Usa vedono l’attentato come un tentativo di Israele, con l’appoggio dell’Amministrazione Trump dei sauditi, di ostacolare il ritorno all’accordo sul nucleare promesso da Joe Biden dopo l’abbandono unilaterale del suo predecessore. Il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha assicurato che l’Iran tornerà all’accordo, se gli Stati Uniti riprendono a rispettarlo. 
All’inizio del 2020, Teheran preferì evitare una vera escalation, rispondendo con una rappresaglia militare limitata dopo l’uccisione del generale Soleimani. Il 2020 volge alla fine, ci sono ancora 35 giorni di transizione tra Trump e Biden e, di nuovo, la tensione è altissima.