La Stampa, 16 dicembre 2020
Biografia di Allen Ginsberg
L’ho conosciuto a metà degli anni 80, quando lavoravo a una serie di documentari sulla cultura ebraica. Allen Ginsberg aveva accettato di partecipare e poi, dopo l’intervista, aveva continuato a venire spesso sul set, interessato a vedere come rispondessero gli ospiti a una domanda che avevo fatto anche a lui: «Cosa significa per lei essere un ebreo?». Dopo quel periodo rimanemmo in contatto, ricordo serate interminabili in cui parlava del periodo più glorioso della beat. Mi trascinava in locali abbastanza squallidi dove anche il cibo era modesto: non era voglia di apparire anticonformista, ma il disinteresse per quel tipo di piacere. Cambiava argomento con una velocità impressionante, ma poi tornava al tema precedente e approfondiva, partendo sempre da intuizioni folgoranti: la sua stessa vita era una poesia. Una volta gli dissi che Isaac Singer sosteneva che tutti noi siamo il romanzo di Dio e dobbiamo lasciarglielo scrivere. «Nel mio caso si tratta di una prima stesura», scherzò, poi aggiunse «ma ognuno deve essere il co-autore».
Era nato nel 1926 a Newark, la stessa città di Philip Roth e Paul Auster, e per quel luogo non provava alcun attaccamento. Il padre Louis era un professore che scriveva poesie di grande passione e nessun successo, la madre Naomi era di origine russa, e credeva in maniera fervente nel comunismo. Fu da Naomi che ereditò seri disturbi mentali, mentre fu il padre, patito di Emily Dickinson, a fargli apprezzare per primo la poesia, anche se si rese conto che alcuni suoi giudizi erano ideologici, come nel caso di T. S. Eliot, accusato in primo luogo di essere conservatore. La prima passione letteraria fu Walt Whitman, riguardo al quale mi disse «leggevo e rileggevo le sue poesie fino a consumare i libri». Lo definiva il più grande poeta americano e in questo rivelava un altro elemento interessante della sua personalità: era intimamente legato alla sua cultura, ma viveva in prima persona la necessità di uno sguardo universale.
«America, perché le tue biblioteche sono piene di lacrime?», scrisse in quel periodo, con un’energia che rivelava altri elementi della sua personalità: «Segui il tuo intimo chiaro di luna, non nascondere la follia». In quello stesso periodo cominciò a scrivere lettere al New York Times: vennero prese molto sul serio dai redattori, i quali pubblicarono quelle sui diritti dei lavoratori e alcune riflessioni sulla Seconda guerra mondiale. Sin da allora avversò con ogni forza il capitalismo e il conformismo, e cominciò a sviluppare i temi che lo accompagnarono per l’intera esistenza, come la repressione sessuale e l’attenzione alle religioni orientali.
All’epoca non poteva immaginare che sarebbe diventato un punto di riferimento della controcultura. I giorni più angoscianti di quel periodo erano quelli in cui la madre, ormai del tutto paranoica, scompariva per alcuni mesi, ricoverata in ospedali specializzati per malattie mentali. Questa esperienza dolorosa si riverbera nel suo capolavoro Urlo, e si ritrova nel Kaddish per Naomi Ginsberg. Per un breve periodo fu ricoverato a sua volta nell’ospedale per disturbi mentali, ma fu alla Columbia University che conobbe Lucien Carr, che gli presentò i futuri protagonisti della beat generation a cominciare da William Burroughs, William Carlos Williams, che divenne il suo mentore, e Jack Kerouac, che in Sulla strada lo soprannominò Carlo Marx.
Il mondo occidentale vedeva l’American Way of Life con desiderio di emulazione, ma a tutti loro sembrava intollerabile quella coltre di conformismo, aggravata dal maccartismo. In uno dei nostri ultimi incontri mi raccontò che era rimasto molto colpito da una lettera che aveva scoperto dopo la morte della madre. Solo molto tempo dopo scoprii che in quella lettera Naomi lo scongiurava di non prendere droghe e di sposarsi. Fu il periodo in cui si trasferì a San Francisco, dove conobbe Lawrence Ferlinghetti e si innamorò di Gregory Corso. Ebbe anche alcune relazioni eterosessuali, la più celebre delle quali con Elise Nada Cowen. Si convertì definitivamente al buddismo e iniziò con Peter Orlovsky la più importante delle sue relazioni sentimentali.
Visse ogni esperienza senza alcun limite, pagandone pesantemente le conseguenze nel suo fisico. «America ti ho dato tutto, e ora non sono nulla» scrisse in quel periodo, ed è raggelante ripensare al verso iniziale dell’Urlo: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa». Specie le ultime volte, mi resi conto che i suoi racconti non erano caratterizzati da alcuna vanità, ma semmai dalla necessità di condividere una battaglia ideale condotta con il corpo e con i versi. «Non possono esistere tabù» mi disse la sera del nostro ultimo incontro, e poi sorrise, come se avesse detto qualcosa di assolutamente scontato. «Il sesso, la droga, la religione, libertà di espressione, e di definirsi come si vuole». Era soltanto un elenco, ma pronunciato da lui sembravano i versi della più intima delle sue poesie.