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 2020  dicembre 16 Mercoledì calendario

Sinfonia per Beethoven

Uno dei più frequenti errori che su Beethoven si commettono è di considerarlo un compositore romantico, se non addirittura colui che aprì trionfalmente la strada al Romanticismo musicale. Torniamo a una vecchia questione: sono le arti allineate secondo il medesimo Zeitgeist (espressione di Goethe che si traduce “Spirito del Tempo”), ovvero esistono nel ductus stilistico e formale scarti di pochi, o molti decennî? Mario Praz aderiva per lo più alla prima opinione. Esistono miriadi che trattano Bach come il più tipico compositore barocco. È, invece, colui che inconfondibilmente corona l’edificio del Barocco musicale, ma nello stesso tempo inaugura lo Stile Classico; oltre ad aver inventato e realizzato in modo non intellettualistico armonie che chiameresti apertamente “romantiche”, anzi, “tardo-romantiche”, e le attribuiresti a Schumann o a Franck.
Se si ricorre a Goethe si può quasi dimostrare qualsiasi cosa. Ci sono opere che esprimono in modo più netto la sensibilità e lo stile romantico? Si capisce. I dolori del giovane Werther, del 1774, e il Primo Faust, finito nel 1806. E il Secondo Faust, lasciato incompiuto per la morte nel 1832, che cos’è? Per certi versi, un’anticipazione grottesca delle peggiori deviazioni di quello che (sempre errando) si chiama Tardo Romanticismo. Ma nel suo insieme è una delle cose più alte, una vera e propria rivendicazione del Classico e del Mito, con tratti – in ritardo rispetto al Zeitgeist – del Neoclassicismo. Nel Primo Faust trovi persino del Hyeronimus Bosch. Nel Secondo, insieme con una fantasmagoria cosmica e a volte enigmatica (le Madri!), distingui la grazia di Canova. Infine, il più facile dei paragoni: Goethe ascoltò con fastidio alcuni dei Lieder coi quali il ragazzo Schubert incorona la sua poesia. Gli piacevano i compositori “semplici”, che non osavano aggiungere alla declamazione melica il senso, fosse pure il suo più profondo senso. Sola eccezione: Mendelssohn.
Se veniamo alla musica, il discorso generale non cambia. Ci sono Sinfonie di Haydn, specie quelle appartenenti agli Anni 70 del 700, che ti paiono nettamente “romantiche”. Non parliamo del Preludio sinfonico alla Creazione, non a caso sottotitolato Rappresentazione del Caos (1796-98). Che del Caos ti dà la più plastica raffigurazione in musica. Direi che ci troviamo di fronte a una specie di Romanticismo portato a invalicabili confini di forma, stile, linguaggio. Non fosse che, ad analizzare la pagina, ti accorgi che al di sotto di tale Caos è nascosta, con arte impagabile, una Forma Classica: chi non sa leggere la musica deve intuirla, il leggere facilita ma la vera legge te la dà l’ascolto.
Occorre partire da un assunto: le periodizzazioni e la simultaneità di ethos fra le arti sono da evitarsi, perché quasi sempre scivolose e lontane dal centro. La categoria interpretativa da preferirsi, per la musica, è che esiste una sola epoca, divisibile, se si vuole, in paragrafi, chiamata epoca classico-romantica. Incomincia, al più tardi, con Haydn: e dico al più tardi perché una delle ossessioni del cosiddetto Romanticismo è quello di rifare Bach; e ci cascano tutti, Beethoven, Cherubini, Schubert, Schumann, Liszt, Wagner: pensiamo solo alla Sinfonia de I Maestri Cantori! E si termina, quest’epoca straordinariamente unitaria, con Richard Strauss, Othmar Schoek, Max Reger, compresi. Nella tarda maniera di Beethoven vi sono cose di un’arditezza insuperabile (il Quartetto in Do diesis minore, op. 111, le ultime Sonate, la Grande Fuga) incomprensibili se non le si vede come un disperato anelito a Bach e insieme a lande incognite e quasi più intuite che delineate. E le Variazioni Diabelli a quale epoca, a quale stile, ascriveresti? Sono al di fuori del tempo, e dello spazio. Per scrivere i più ardui passaggi contrappuntistici della Missa Solemnis, composta fra il 1819 e il 1823, egli si mise a studiare i contrappuntisti del 500. Poi accade che, sin dai suoi ultimi anni, i Maestri delle generazioni successive guardano a lui con un anelito altrettanto disperato. Tutto, e anche le opposte correnti, sembra provenire da lui.
Nella sua opera esistono di gran tratti canoviani, da certi più esibiti con eleganza (Le creature di Prometeo: si tratta pur sempre di un Balletto) ad altri che puoi definire solo celesti: dal Triplo Concerto (1803-4) al Concerto per violino (1806) alla Quarta Sinfonia (1806-7), al Quarto Concerto per pianoforte – la sublimità stessa. Alle opere “Neoclassiche” debbo aggiungere una in “stile sublime”, la Scena e Aria per soprano e orchestra Ah! Perfido, che porta l’impronta di uno dei suoi Maestri, il ridicolizzato da cattiva letteratura e cattivo cinema, e invero grande, Antonio Salieri, e una che allo “stile sublime” e straziante – la solitudine del Cristo – affianca grazie vocali e coloristiche prettamente italiane, l’Oratorio in tedesco Cristo al Monte Uliveto (1801-3): e sempre a Salieri (e all’operista Haydn: la strepitosa Armida) torniamo, se certe colorature dell’Angelo fanno pensare addirittura a un castrato allievo di Rossini: all’epoca, di undici anni, pur se già grande Autore delle sei Sonate a quattro. Peraltro Beethoven accolse nel 1822 l’unico compositore italiano che allora l’adorasse ed eseguisse a memoria le Sonate pianistiche, sempre Rossini, con un malgarbo e un’alterigia che giustificano l’epiteto di “selvaggio” col quale veniva definito in società. Solo perché le sue Opere tragiche riscotevano successo quanto le comiche; per lui gl’Italiani, ciarlatani e superficiali, dal Comico non dovevano, non potevano uscire.
Una delle cause dell’equivoco Beethoven-Romanticismo è proprio loro, dei Tedeschi. Se ascoltiamo una Sinfonia diretta da Felix Weingartner o da Hans Pfitzner (in proprio grande compositore) scappiamo a gambe levate. Rapsodicità, mancanza di senso della forma, cambiamenti degli stacchi di tempo continui e immotivati. Neanche Furtwängler fa una gran bella figura. Il sommo Nikisch se la cava abbastanza, ma non è che la sua Quinta Sinfonia vorremmo ascoltarla una seconda volta. Fa eccezione Richard Strauss, perfetto in tutto. Il vero compositore Beethoven glielo abbiamo insegnato noi: Giuseppe Martucci, quasi napoletano, al pianoforte e sul podio. E Arturo Toscanini, sul podio, che in parte da Martucci proveniva. Quando ascoltiamo qualcuno che lo accusa di freddezza (e per molti anni l’ho fatto anch’io!), dobbiamo pensare a che cosa Toscanini si trovasse di fronte. Forse eccedeva un po’ in distacco: ma era una reazione superperdonabile. Dobbiamo rifugiarci in Ungheria, con Fritz Reiner, del quale l’erede fu Georg Solti, autore della più bella incisione del Fidelio che io conosca; con Ferenc Fricsay e George Szell.
Il resto – il grosso – della produzione di Beethoven è Classico puro. Tanto è vero che se vogliamo fare un parallelo extratemporale, relativo alla Forma, allo Stile e al Linguaggio, là ove quasi tutti lo paragonano a Michelangelo, io lo accomuno a Raffaello: quello “eroico” delle Stanze e de La Scuola d’Atene, perché la rifinitura, la grazia, insieme con il culto della grandezza classica, sono ancor più di Raffaello che di Michelangelo. La grazia di Beethoven non viene abbastanza considerata, ma pesa quanto la sua potenza. Esiste poi un’opera insieme possentemente classica e neoclassica nel grandioso Fugato – e guarda sempre a Bach – l’Ouverture Die Weihe des Hauses (1811), ossia Per l’Inaugurazione del Teatro.
Aggiungo un altro parallelo sulla pittura. Riguarda due casi di Tiziano, del pittore di 86 anni e del trentenne. L’ottantaseienne si dice dipingesse L’incoronazione di spine (quella della Alte Pinakothek di Monaco) con i pennelli attaccati con spago alle dita, tanto soffriva per l’artrosi. Potrei subito affermare: Beethoven ha scritto la Missa solemnis e la Nona Sinfonia essendo totalmente sordo. E comunque, la prima risposta allo pseudo-parallelo sarebbe solo che il sommo artista adatta la tecnica alle condizioni nelle quali si trova, così potenziandola. Intendevo invece sostenere che il pathos estremo concepito da un uomo prossimo alla morte porta a una tecnica estenuata, ove la distinzione fra linea e colore si attenua miracolosamente proprio perché il fatto narrato è così infame e inconcepibile che il pittore è costretto a inventarsi strumenti tecnici inauditi per darcene l’immagine. Beethoven fa qualcosa di assai simile nel Quartetto in Fa minore op. 95: lo strazio da esprimere (tirar fuori, in senso etimologico) è così profondo che le arditezze armoniche, una forma che mescola linea e colore (la vedreste mai nel Quartetto in La minore op. 132, o in quello op. 135?) ti sembrano connaturate naturalmente. Un caso ancor più impressionante: quando, nel Fidelio, i prigionieri laceri, abbruttiti, vengono tratti per qualche istante alla luce – da mesi non la vedevano – Beethoven ricorre ad armonie insieme rarefatte e ardite, a lungo immobili, da esprimere non solo il soffrire dell’innocente detenuto, ma pure l’abbagliamento dei suoi occhi.
Vengo al caso di Tiziano giovane. Certo, dieci anni di differenza erano un abisso. Ma il ventenne Beethoven è un caso a sé. Pigliamo un quadro se altri mai luminoso, pieno di gioia e persino di licenza: il Bacco e Arianna della National Gallery (1520 circa). E del caso a sé, il ventenne Beethoven, pochi si interessano. Abbiamo due brani strettamente connessi, scritti ambedue a Bonn. Il primo è la Cantata per la morte dell’imperatore Giuseppe II, l’altro, immediatamente successivo, la Cantata per l’intronizzazione di Leopoldo II. La precocità di Mozart è leggendaria; ma se vogliamo, tra tante cose mirabili, trovare davvero il Sublime, dobbiamo ricorrere all’Opera Seria Idomeneo. Qui, col massimo che un ventisettenne avesse fin lì dato, si situa il paragone con il ventenne. Le due Cantate vennero perdute, passarono per varie mani, vennero ascoltate solo nel 1881 e nel 1885, ed edite nel 1888. La grande ombra di Brahms presiedette alla risurrezione. Ma perché non vennero eseguite nel tempo e nell’occasione prescritti? Si consideri che il padrone (arcivescovo) di Beethoven a Bonn era pur egli un Asburgo. Ma il disprezzo onde Giuseppe II, tiranno e velleitario insieme, era circondato, fecero sì che la Cantata in sua memoria venisse rifiutata dovunque. E la Cantata per Leopoldo venne trascinata a fondo dalla prima. In quella per Giuseppe Beethoven ebbe un bel simulare, con mezzi artistici straordinarî, il compianto, il buio della morte: non ci credette nessuno. La Cantata per Leopoldo è tutta percorsa da una luminosità addirittura arcana: sempre succede che, a un cambio di sovrano, ci s’illude sia per nascere una nuova era, felice e prospera. Come la Cantata sorella, non ha nulla di quell’impaccio, ovvero di quella facile facilità, che sono i lati opposti nei quali può cadere un artista esordiente. Sono somma musica e basta. La pubblicazione e l’esecuzione viennese risanarono antiche inimicizie, ne fecero nascere di nuove.
Non ho parlato dei Quartetti, delle Sonate, del Fidelio (per me il culmine della sublimità in fatto di teatro musicale). Ogni volta ciascuna sembra il nec plus ultra del genere.