il Giornale, 16 dicembre 2020
Ritratto di Giovanni Lindo Ferretti
E ccomi lì con Giovanni Lindo Ferretti. Eravamo a Luzzara, subito dopo un incontro con letture e canti tenuto da lui nel piccolo teatro del paese. Era il 15 giugno del 2019, il fotografo assieme al bibliotecario, insisevano nel dirmi «Fai una foto con Giovanni, fai una foto con Ferretti». A occhio saranno state le sette, sette e mezzo di pomeriggio. Non volevo farmi fotografare con lui. Quel giorno era torrido, anzi afoso, e la camicia nera mi stava troppo aderente. Mi sentivo gonfio, sentivo le scarpe strette, i pantaloni troppo corti. Avevo persino i calzini bianchi e mi stavo chiedendo perché i pettorali flaccidi spingevano contro il tessuto stinto di quella camicia alla coreana che dovevo tenere slacciata perché i bottoni tiravano troppo dentro agli occhielli. Ero fuori luogo, perché Giovanni Lindo Ferretti, per tutto quel che so di lui, è uno degli uomini del quale ho letto praticamente tutto, ho ascoltato praticamente tutto, ho visto praticamente tutto e non potevo essere in quel luogo, così vicino a lui, e farmi fotografare. In questo senso ero fuori luogo. Quante volte, in giro per l’Italia, in tantissimi concerti e incontri, gli sono stato vicino senza palesarmi. Quante volte in trent’anni. Lì a Luzzara c’ero andato per stargli lontano, ma c’ero andato anche per ascoltare le sue parole, per me sempre intense, meditate, esatte. Quando ascolto e leggo Ferretti sento un suono di verità. Sento un suono antico, e quindi modernissimo. Sento urla, anche se il tono della voce rimane basso e la scrittura è lineare. Quel 15 giugno 2019 era un giorno bislacco, e io stavo vivendo un periodo particolare della mia vita. Quel teatro, quel paese, quell’atmosfera, erano unici perché lì c’era nato Zavattini e lo senti. C’erano decine di persone che fotografavano Ferretti a ogni passo. Lui era cordiale, parlava con tutti. In mano teneva un bicchiere bianco di plastica e gli riempivano dentro vino gassato. Io non sapevo che dire. Solo che gli capitai vicino e mi dissero: «Fai la foto con Giovanni» Mi avvicinai e il bibliotecario gli disse: «È Bregola, è Davide Bregola. Uno scrittore» così mi sono sentito proprio uno di quegli scrittori inutili raccontati da Ermanno Cavazzoni in un suo libro impietoso. Ferretti non ha fatto una piega, mi ha guardato ma ho abbassato gli occhi per non incrociare i suoi. Come dicevo poco fa, era un periodo particolare della mia vita quel 2019, quel giugno, e dopo dirò il perché, ma sentire il suo braccio amichevole avvolgermi le lonze mi fece provare un moto d’inadeguato disagio. Se vado indietro nel tempo ricordo la prima volta in cui sentii la sua voce, era il 1987. Ero al mare di Venezia e sentii un darkettone cantare «Mi ami?».
Nel 1991, mi trovavo a Moglia a fare l’obiettore di coscienza. Ero a tutti gli effetti un militare e dovevo rispondere al Ministero della Difesa. Per tutta la settimana mi dividevo tra casa di riposo, servizi sociali e biblioteca. Quante ne ho viste! Spartivo la cucina e una stanza con Andrea, un punk di Soncino che si cospargeva viso e corpo di crema idratante prima di andare a letto, beveva una bottiglia a pasto di Lambrusco «Moja» che ci passava il refettorio della mensa scolastica, ascoltava perennemente i CCCP su uno stereo o col walkman. Ero già intrippato con le letture. Mi leggevo di tutto, ma soprattutto scrivevo poesie sui muri delle camere da letto delle amiche. Sul muro della stanza di Sara, una domenica, scrissi a penna il testo di una canzone dei CCCP: «Il Valium mi rilassa. Il Serenase mi distende. Il Tavor mi riprende. C’è chi mi dà energia e chi la porta via. C’è chi mi da energia e chi la porta via. E voi cosa volete? Di che cosa vi fate? Dov’è la vostra pena, qual è il vostro problema? Perché vi batte il cuore? Per chi vi batte il cuore? Meglio un medicinale a storia infernale». Nei testi scritti da Ferretti c’erano parole e significati oscuri. A volte non li comprendevo ma avevano una loro aura di potenza rivoluzionaria.
Nel 2006 boom! Arrivò il primo libro di Ferretti: Reduce. Raccontava la sua infanzia su in montagna, con la nonna e gli zii, ma soprattutto raccontava il suo peregrinare, di Paese in Paese, per cercare di esaudire la sua curiosità di conoscenza. Marrakech, Ulan Bathor, Mosca, Magreb, Algeria, Jugoslavia, Mar Morto e paesaggi famigliari. Non è tanto ciò che Ferretti racconta, ma è il come lo racconta. A tratti sembra di leggere testi di sue canzoni, a tratti il libro sembra scritto in versi: «Si incontrano paesaggi camminando nella vita che ci appartengono e paesaggi altri, impossibile ogni legame che non sia ignota meraviglia. Dei primi è parte la Mongolia, dei secondi il Salento, terra di sole mare vento.» In copertina a Reduce Ferretti sembrava un monaco, vestito con un lungo saio di iuta.
Bella gente d’appennino è il secondo libro pubblicato nel 2009. È una sorta di inventario dove attraverso una manciata di parole chiave racconta il suo percorso artistico e spirituale. Rispetto a Reduce la sintassi è più tessuta, il sentore di poesia è scomparso e lascia il posto alla narrazione, seppur autobiografica. Qualche tempo fa è uscito per GOG L’Italia profonda un libro in cui Ferretti racconta, a modo suo, l’Appennino Tosco-Emiliano e Franco Arminio racconta Bisaccia e il territorio circostante abbandonato. Leggendolo si capisce in modo netto la grandezza poetica e la spiritualità di Ferretti. Chi si affianca a lui soccombe, perché Ferretti è un vero poeta prestato alla musica, allo spettacolo, alla letteratura. Ora è appena uscito il libro Non invano e mi sembra che l’autore sia tornato alle origini. Qui racconta la sua esplorazione in solitudine. Ormai a Cerreto Alpi, dove ha casa, ci abitano solo 80 persone. Ha dovuto abbandonare l’utopia del maneggio perché i cavalli hanno bisogno di tanta cura, tanto denaro, tanta dedizione. Portarli in giro è complesso. Lo stile, personalissimo, è poetico, evocativo, sinuoso. Racconta la montagna, i cavalli, i viaggi, la musica, la società, la vita, la famiglia, la religione. È il Ferretti di sempre, ma stavolta, come nella tecnica del Kintsubi giapponese, riprende se stesso e impreziosisce i guasti con filamenti dorati. Poco più di cento pagine eleganti. Ferretti come scrittore è un Didimo Chierico dei nostri giorni, disposto all’indulgenza verso gli altri, ma con l’animo integro dell’esploratore puro.
Il giorno in cui facemmo la foto avevo 47 anni, avevo passato diversi mesi da solo, su una casa galleggiante a Po, tra Lombardia, Veneto ed Emilia, mi vedevo sfatto, strano. Non ero a mio agio. Soprattutto ero pervaso da una felicità mai provata. Sapevo dal giorno prima che sarei diventato padre. Ancora non sapevo se sarebbe stato maschio o femmina. Ero lì con Giovanni Lindo Ferretti che mi stringeva ai fianchi con la destra e io stavo diventando padre. Il mondo non lo sapeva, ma io sì e gioivo. In fondo Ferretti ha sempre scritto e cantato di amore, di lotta e rivolta e io quel giorno ero pieno di tutto questo. Contro l’inclemenza dei tempi continua a difendere la sua costruttiva solitudine di scrittore isolato. «Io sto bene, io sto male. Io non so cosa fare. Io sto bene, io sto male, io non so dove andare». Ora, quando porto Chiara al Nido in auto, a volte metto su Io sto bene e gliela canto. Tra qualche anno leggeremo assieme i libri di Ferretti.