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 2020  dicembre 14 Lunedì calendario

Il film danese sul rapporto fra uomini e alcol

Nell’intreccio di brindisi, lacrime e sorrisi che ha salutato, l’altra sera, nella casa del regista danese Thomas Vinterberg, l’affermazione di Un altro giro, vincitore di quattro dei più importanti riconoscimenti agli «European Film Awards», aleggiava, da una parte, l’entusiasmo di una marcia trionfale che potrebbe concludersi sul palcoscenico degli Oscar e, dall’altra, l’ombra del dramma che ha segnato l’opera, interrotta durante le riprese per la morte della figlia diciannovenne del regista. Un mix di dolore e felicità che, in fondo, si riflette sul film, rendendolo, insieme estremo e commovente, tragico e vitalistico.
L’esperimento dei quattro amici al centro della vicenda si rifà alla tesi dello psicologo Finn Skarderud secondo cui, nella chimica umana, ci sarebbe un difetto congenito, dovuto all’assenza nel sangue di una percentuale di alcol dello 0,5. Con l’obiettivo di ovviare alla carenza i protagonisti di Un altro giro camminano in bilico su un baratro, sospesi tra l’ebbrezza della liberazione che stimola la creatività e l’incubo della dipendenza che spezza le vite proprie e altrui: «La nostra non è un’apologia sull’uso dell’alcol. Scrivendo la sceneggiatura - spiega Vinterberg - ci siamo resi conto di quanto il bere possa aiutare le menti ad aprirsi e a elevarsi, ma, allo stesso tempo, di quanto possa essere distruttivo per le persone e per i loro legami familiari. Abbiamo ritenuto fosse un terreno interessante da esplorare».
Il film presta il fianco alle polemiche, gli eccessi di alcol, come la storia racconta, provocano danni enormi. Come risponderebbe a chi potrebbe giudicare pericoloso «Un altro giro»?
«Il finale è aperto, in qualche modo ambiguo, tutto può succedere e ogni interpretazione è valida. Non volevo essere moralista, piuttosto mi interessava portare avanti un’oggettiva ricerca sulla natura umana. Il bere è parte integrante della cultura danese e questo è sicuramente criticabile, ma è anche vero che ci sono buone ragioni per ricorrere a questa pratica. Viviamo in una società dove tutto è molto misurato e regolarizzato, per questo credo ci sia un forte bisogno di perdere il controllo, di recuperare lo spazio dell’irrazionale. Di questa zona, fanno parte cose importanti, come l’innamorarsi o l’avere intuizioni geniali».
Al centro di «Un altro giro» c’è Mads Mikkelsen, premiato per la migliore interpretazione. In che modo avete lavorato al film?
«Io e Mads siamo molto amici, abitiamo vicini, ci vediamo spesso, siamo cresciuti credendo negli stessi eroi, vedendo gli stessi film, ci fidiamo profondamente uno dell’altro. Prima di girare abbiamo deciso che Mads, con questo ruolo, sarebbe dovuto uscire dalla sua "comfort zone", e così è stato».
Secondo lei ogni nuovo inizio nasce necessariamente da una distruzione?
«La risposta è sì. Tutto il mio processo creativo, da quando ho cominciato, da Festen in poi, si è basato sul distruggere per poi ricostruire».
I protagonisti di «Un altro giro» sono anche uomini in piena crisi di mezza età. È una fase della vita in cui lei si ritrova?
«Capisco gli uomini che la attraversano, ma non mi identifico. La mia esistenza è cambiata, in un modo molto tragico, con la scomparsa di mia figlia, non c’è stato più spazio per problemi di questo tipo. Il film offre un ritratto intimo dei personaggi, ma non riguarda il mio privato».
Quali saranno, secondo lei, gli effetti del Covid sulle abitudini delle persone, compresa quella di andare al cinema?
«Non credo che il mondo cambi tanto facilmente, penso che dopo la pandemia le cose torneranno, nel bene e nel male, più o meno simili a prima. Ho una grande fiducia nel senso di comunità e ritengo che la gente avrà di nuovo voglia di andare nei cinema e di vivere l’esperienza condivisa che questo comporta. Le storie, i film, sono ponti che uniscono gli individui, è impossibile non sentirne la mancanza».
Come giudica il dilagare dello streaming e il fatto che grandi registi realizzino film destinati alle piattaforme?
«Ritengo che lo streaming vada accolto con apertura mentale, è una forma di fruizione, non va aggredita, le persone continueranno a servirsene, e, quando sarà possibile, torneranno al cinema. Io stesso sto lavorando a una serie, "Families like ours", quindi non biasimo autori come Scorsese, che ha girato per Netflix, ma certo mi piacerebbe vedere i loro film anche sul grande schermo».