Affari&Finanza, 14 dicembre 2020
La Germania non lascia alla Cina le aziende strategiche
Il governo tedesco ha bloccato nei giorni scorsi la vendita di Imst, un’azienda ad alta tecnologia per la difesa, che aveva svegliato gli appetiti dei cinesi di Emst, attivi nella produzione di attrezzature per le comunicazioni militari e controllati direttamente da Pechino. Il ministero dell’Economia guidato da Peter Altmaier, ha sventato l’acquisto cinese adducendo motivi di «sicurezza» e «ordine pubblico». Imst ha prodotto componenti, ad esempio, per il satellite TerraSar-X. E in generale dispone di un know how essenziale per le comunicazioni satellitari e militari, ma soprattutto per lo sviluppo del 5G e 6G. «Se non venisse bloccato, l’acquisto di Imst trasferirebbe know-how che contribuirebbe al riarmo della Cina»: è questa la motivazione che si legge nero su bianco nei documenti del ministero che ha disposto il divieto di vendita. Una settimana dopo il vertice della Nato che ha rilevato con preoccupazione l’ascesa della Cina non più soltanto in termini economici e commerciali, ma militari, lo sventato takeover di Imst ha anche ragioni geopolitiche.
La minaccia cinese
Ma in Germania c’è allarme da tempo per l’interesse spasmodico della Cina verso uno dei Paesi più avanzati nell’alta tecnologia. Sin dal governo Merkel-ter, quando il ministero dell’Economia era guidato dal socialdemocratico Sigmar Gabriel, Berlino aveva cominciato a ragionare su un’estensione del cosiddetto “Aussenwirtschaftsgesetz”, la legge federale che in determinate circostanze, ad esempio nel caso di aziende strategiche per la difesa, può bloccare la conquista di aziende tedesche da parte di imprese straniere. Il trauma che aveva accelerato quella riflessione risale al 2016, quando il gioiello della robotica Kuka era stato inghiottito dalla cinese Midea. Il governo non aveva potuto fare nulla per impedire il takeover: troppo larghe le maglie dell’ “Aussenwirtschaftsgesetz “.
Nello stesso anno, il famoso marchio delle lampadine Osram era stato ceduto a IDG Capital Partners. Successivamente il governo ha sempre dovuto cercare «cavalieri bianchi» per impedire lo shopping cinese. Gli appetiti di Pechino sono calati molto, rispetto ai picchi di metà decennio. Ma nel 2018 il governo ha dovuto schierare la banca pubblica Kfw, la Cassa depositi e prestiti tedesca, per comprare il 20 per cento di Hertz, l’azienda di infrastrutture energetiche che rischiava di finire in mano ai cinesi. Nel quadro del piano «Made in China» con cui Pechino punta entro il 2025 di diventare leader mondiale nello sviluppo di numerose tecnologie chiave come la robotica, le macchine elettriche o la biotecnologia, la Germania è stata chiaramente presa d’assalto per anni per consentire alla Cina di procurarsi velocemente il know how necessario a raggiungere la vetta dell’alta tecnologia.
Fa impressione leggere alcuni nomi nella lista delle 175 imprese in cui i cinesi, quasi sempre attraverso gruppi controllati dallo Stato, si sono comprate quote rilevanti o direttamente tutta l’azienda. Il colosso privato cinese dell’auto Geely è il primo azionista di Daimler con il 9,7%. Il gruppo Hna ha ridotto la sua partecipazione in Deutsche Bank, ma detiene ancora il 5,11%. Le aziende Duerr e Heidelberger Druck hanno ceduto quote a concorrenti di Pechino, così come un marchio importante del settore delle biotecnologie, Biotest, è finito nel 2017 in mani cinesi. Anche il fornitore della Apple Manz ha ceduto quasi un terzo delle sue azioni a Shanghai Electric. E l’elenco è ancora lungo.
La risposta europea alle bugie di Pechino
All’inizio di quest’anno l’Europa, a causa delle bugie diffuse da Pechino sull’origine del coronavirus e della scoperta di essere troppo dipendenti dalle mascherine e da altri prodotti sanitari cinesi, si è svegliata. E ha cominciato a ragionare sulla ri-nazionalizzazione di alcuni prodotti, a partire dagli indumenti di protezione. Ma la Germania è andata oltre. Già a febbraio il ministro Altmaier – prima che scoppiasse la pandemia – aveva presentato un ambizioso piano strategico per la Germania in cui ipotizzava di creare un fondo di investimenti pubblico per poter entrare «temporaneamente» nel capitale di aziende strategiche con l’obiettivo di difenderle da scalate ostili cinesi o americane. E un mese dopo, quando il coronavirus aveva già preso piede in Europa e ha costretto Berlino a varare un piano mammut anti-crisi da 750 miliardi, Altmaier e il collega delle Finanze, Olaf Scholz, hanno resuscitato anche la vecchia Soffin, il fondo pubblico che nella crisi finanziaria aveva pompato montagne di soldi nelle banche. Il fondo è stato dotato di 100 miliardi di euro per l’eventuale ingresso nel capitale di aziende a rischio e di altri 400 miliardi per garantire bond o prestiti di aziende nazionali. Nella Cdu, la nuova Soffin è stata prontamente ribattezzata «fondo anticinese».
Poco dopo, all’inizio dei aprile, Peter Altmaier si è regalato per il suo 62esimo compleanno la tanto agognata riforma dell’Aussenwirschaftsgesetz che tutela maggiormente le aziende strategiche da takeover stranieri. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha fatto superare ogni dubbio sulla legittimità di una legge che limita gli investimenti in Germania, è stato il tentativo di Donald Trump di accaparrarsi Curevac, una delle aziende farmaceutiche.
La nuova legge ha allargato dunque l’ambito di intervento del governo alle telecomunicazioni, alle infrastrutture energetiche e strategiche, ai beni e ai servizi essenziali, ai prodotti farmaceutici e sanitari e ad altri settori che il ministro ha definito «di importanza essenziale». E la legge introduce anche procedure più rigorose per chi investe in Germania. E se la vecchia legge non era riuscita a proteggere quattro anni fa Kuka, la nuova ha sbaragliato i cinesi che avevano messo gli occhi su Imst. «Dopo l’acquisto -, spiega il rapporto del ministero – Imst avrebbe smesso di essere un partner affidabile». Più chiaro di così.