La Lettura, 13 dicembre 2020
Storia dell’eremita Fabrizio Cardinali
«Salendo verso Cupramontana, a pochi chilometri dal paese, puoi lasciare la macchina al lato della strada, su una piazzola, sotto c’è un viottolo, da lì devi scendere fino ad arrivare alla casa»: questa era stata la puntuale raccomandazione di Jacopo, che aveva recapitato il giorno prima un messaggio a mio nome, annunciandomi. Infatti, appena parcheggiato, imboccato subito dopo il piccolo sentiero, su un lato, appoggiata a una quercia, ho intravisto la cassetta della posta nera dove il mio giovane emissario aveva abbandonato il dispaccio, con sopra scritto Fabrizio e Siddhartha Cardinali, e sotto Tribù delle noci sonanti. Dopo, mi sono lasciato alle spalle la strada e perso nella campagna, scomparendo dentro un bosco di lecci e ulivi, camminando all’inizio su un tappeto di ghiande, in faccia a una collina scoscesa e senza tempo, abbandonandomi al silenzio e alla scoperta, scendendo ancora a passi rapidi lungo il sentiero fino a quando non sono arrivato davanti a una biforcazione, seguendo la freccia fatta di piccoli sassi sul lato destro del terreno ed entrando in una fitta boscaglia.
Ho continuato a camminare in discesa sulla terra battuta dai cinghiali, facendomi largo tra i rovi, superando una vegetazione che stringeva, chiudendomi la vista. Una volta riconquistato l’aperto mi sono imbattuto subito dopo in un bosco di piante di fichi su un suolo arido, e dagli intrichi aggrovigliati dei rami ho intravisto in lontananza una piccola casa colonica avvolta nel silenzio, le scale dell’ingresso, il civico, le persiane delle finestre sprangate, che sembrava disabitata. Costeggiando cauto la parte laterale, quasi subito ho visto uscire all’improvviso da un varco rabbuiato Fabrizio Cardinali, mitemente sorridente, il viso roseo e la fronte rugosa, una grande barba grigia da patriarca ortodosso, il maglione di lana pesante e i piedi scalzi, che mi ha dato il benvenuto. Con lui c’era anche Agnese, una ragazza piemontese gioviale, piccola di statura e dai capelli castano chiari, con le babbucce rosse ai piedi, arrivata lì da qualche giorno. «Fortuna», dice di lei Fabrizio, parlando subito dopo del figlio tredicenne cresciuto qui in simbiosi con lui e a contatto con la natura come un piccolo Tarzan – con il nome che richiama il personaggio di un libro di culto di Herman Hesse, classico dell’inquietudine adolescenziale, in realtà chiamato così in onore di Buddha – «perché dopo che Siddhartha è andato via ero disperato», non pensava che un giorno sarebbe rimasto da solo in questo fazzoletto di terra dimenticato da Dio, ora che ha 70 anni, dentro questa natura avvolgente di alberi e prati scoscesi.
«Quando ho iniziato immaginavo di formare una tribù, vivere qui con un gruppo stabile, gente di tutte le generazioni», racconta, seduto sul gradino dell’ingresso, le mani intrecciate, scurite e screpolate dalla fatica del lavoro agricolo, mentre mi accomodo di fonte a lui sedendomi a terra su una pietra. Facendo tesoro di un proverbio che ha sentito pronunciare da una vecchia contadina di queste parti – «Una noce dentro un sacco poco rumore fa. Ma tante noci insieme suonano» – è nata l’idea di fare una vita semplice e autosufficiente, al di fuori delle tecnologie dipendenti da petrolio ed elettricità.
Nel documentario di osservazione di Damiano Giacomelli e Lorenzo Raponi Noci sonanti, di raro equilibrio formale nel ricostruire la verosimiglianza della vita che scorre, un realismo naturalistico capace di raccontare paesaggi e persone nel tempo, girato nel 2016, il conflitto tra padre e figlio era appena cominciato, ma ora il ragazzino ha deciso di non vivere più qui, sta con la madre in Liguria, in un paesino in provincia di Imperia, «da quest’anno frequenta la scuola pubblica, si è rifiutato di dare gli esami da privatista, quindi ripete la seconda media», dice sconsolato Fabrizio. «Me lo sono goduto per dodici anni, adesso è andato», aggiunge con un senso di ineluttabilità.
Mi racconta che l’anno scorso hanno fatto insieme il Cammino di Santiago: partiti dalla Liguria una mattina in autostop, «siamo arrivati al via sui Pirenei il giorno dopo, nel pomeriggio». Prima di iniziare aveva il timore che il ragazzino potesse stancarsi, annoiarsi, fare i capricci, che non riuscisse a farcela, stremato dalla fatica, «invece è stato bravo, ha dato energia anche a me, portava in spalla lo zaino, e anche le provviste, affinché non mi affaticassi», sostiene con il tono della nostalgia di quel loro ultimo viaggio affettuoso e avventuroso fatto insieme lungo sentieri lontani. E quando Siddhartha è ripartito, pochi giorni fa, ha lasciato un vuoto nella sua vita: «La solitudine ti mette in comunicazione con te stesso, esce fuori il bello e il brutto», dice ancora immalinconito.
Tutto è cominciato nel 1972, quando Fabrizio Cardinali lasciò gli studi di Astronomia, la famiglia e l’attività sportiva (pallavolista, giocava in serie A con la Baby Brummel di Falconara): «C’erano gli hippy, le comunità, il nomadismo», riferisce gioioso di quegli anni giovani di ribellione e bellezza; aggiungo la Beat generation, il festival di Woodstock, tre giorni di pace e musica rock, Urlo di Allen Ginsberg. Fabrizio frequenta ambienti libertari, anche se tiene a precisare di essere stato «un anarchico per conto mio, mi sono formato delle idee in testa che corrispondevano ai principi dell’anarchia, rispetto allo Stato, ai padroni, alla società e alla religione», istituzioni che contestava, ma poi si è avvicinato agli insegnamenti di Buddha, «che non disconosce le altre religioni, che in ogni caso vanno oltre la materialità della vita umana». Dice che la gente ha paura della libertà, ha bisogno di leggi, di regole, «cerco di vivere il più possibile fuori», racconta, «come se lo Stato non esistesse».
Prima ha viaggiato molto, frequentando diverse comunità, è vissuto per un periodo anche in Sicilia dove aveva acquistato un appezzamento di terra, solo un ettaro, a Piazza Armerina, e nel 1986 è arrivato qui, «ho deciso di tornare nella mia terra d’origine, dove sono le mie radici», spiega, «mi sono messo a cercare, questo è un luogo isolato ma vicino alla strada asfaltata, mi sembrava un buon posto dove vivere».
In questo piccolo paradiso nelle campagne del Verdicchio, nel silenzio assorto di questi campi vive senza energia elettrica, senza televisore, senza computer, «non ho l’automobile, mai presa la patente», precisa, «neanche la tv», ribadisce, «solo una radiolina comprata dai cinesi, la ascolto la sera, ma mi interessa relativamente come va il mondo, come va lo so, domina l’ansia per la crescita del Pil», dice con sufficiente distanza, «l’aumento dei consumi, domina l’avidità, le guerre di conseguenza servono per regolare tutto questo. Dentro ognuno di noi c’è una componente di avidità, che il sistema incentiva».
Quando deve comunicare con qualcuno che sta lontano va alla stazione di Jesi, «lì c’è il telefono pubblico, uno degli ultimi, ci arrivo facendo l’autostop». All’inizio la sua scelta è stata più radicale, era contro il mondo capitalistico, la società dei consumi, «ora il contro lo toglierei», mi confessa, «lo sostituirei con senza, sono al di fuori, faccio il mio tipo di vita diverso, che era alternativo quando pensavo contro».
Principalmente Fabrizio fa l’agricoltore biologico, «cerco di coltivare gli ulivi per l’olio», dice con umiltà, «l’orto, gli alberi da frutto, le api per il miele, bado alle galline, che ogni tanto si ricordano di fare delle uova. Per la nostra illuminazione notturna usiamo lampade a olio. L’olio è quello di frittura che parenti, amici e conoscenti mettono da parte e periodicamente ci consegnano. E poi finché posso vado in giro scalzo, i piedi a contatto con la terra». Ha interrato anche le piantine di canna da zucchero, portate dall’India.
Oggi il menu è molto ricco, come ogni giorno. Me lo racconta: «Ho cucinato una polenta di grano, poi ci sono zucca e scalogni, ceci e lenticchie avanzati di ieri, frutta cotta, l’insalata con erbe selvatiche, noci e mele preparata da Agnese». Fabrizio per sopravvivere vende marmellate, miele e succhi d’uva ai mercatini, vino non lo produce e non lo beve, anche se nei cinque ettari di terra ha anche vigne di Verdicchio e Biancame, segue l’alimentazione macrobiotica e la carne non la mangia dal 1973, di prodotti animali consuma solo miele e qualche uovo. Con quello che guadagna vendendo i suoi prodotti acquista la salsa di soia, i cereali e i legumi; così può pagarsi le spese odontoiatriche.
«Anni fa non ero mai da solo», racconta, «poi c’è stato un calo, ma adesso c’è un ritorno, c’è sempre gente che passa, che è interessata», come Agnese, che ha accompagnato lui e Siddhartha in Nepal e in India, perché la madre del ragazzino per essere sicura voleva che ci fosse una terza persona ad accompagnarli. Agnese ha scattato delle belle foto, «un ricordo», dice Fabrizio, «una volta ero contrario all’uso della macchina fotografica», sostiene, «fermare le immagini non mi piace», conferma, «invece mi piace ricordare quello che ricordo e dimenticare quello che dimentico», questa è la sua piccola filosofia, «poi si usano anche le pile; peggio ancora è lo smartphone, che filma tutta la vita».
Ma di avere quelle foto adesso è contento, «però capisco i limiti», sostiene mentre siamo ancora seduti uno di fronte all’altro davanti all’uscio di casa, lui con i piedi scalzi e io stretto nel mio cappotto e infreddolito, che prendo appunti su un piccolo taccuino; gli piace l’idea che scriva ancora a mano, «i tanti ricordi del viaggio non sono più autentici, sono il ricordo delle foto, sono stati trasformati».
Fabrizio racconta che una volta ha scritto una memoria della sua vita per un’antologia, il rapporto con il selvatico, una cosa di questo tipo, «il racconto però è stato un filtro rispetto ai miei ricordi reali, adesso ricordo ciò che ho scritto», ragiona a voce alta, mentre parla, «non è la percezione del reale, ma una copia».
Entriamo in casa, nella grande cucina c’è la stufa dove accende la legna da ardere tagliata nel bosco; in terra i tappeti dove mangia; sulla finestra un adesivo con il simbolo di Survival, la Ong che difende i popoli indigeni, che sostiene da anni; in un angolo la sera – a cominciare dal settembre del 2004 – si stendono i pensieri della giornata sul «Quaderno della lampada a olio»: Fabrizio mi mostra i 27 quaderni scritti fittamente a mano da lui e dagli ospiti, alcuni dei quali arrivano all’improvviso, chiedono se possono stare qui, che pubblica sulla fanzine underground «Il seminasogni».
Quando ci spostiamo, mi fa vedere l’orto sul lato destro della casa colonica, dove ha piantato cavoli neri toscani, quelli della Maiella, e i topinambur; vicino c’è una fonte d’acqua potabile, l’unica di tutto lo stabile, e più avanti la tenda azzurra dove dormiva con Siddhartha, anche d’inverno, quando qui nevica e fa freddo, e adesso s’assopisce da solo per passare la notte. Di fronte invece c’è un prato dove riposa nei mesi più caldi. «D’estate dormo per terra su alcune stuoie, per stare in contatto con la natura», dice, «con gli elementi, una cosa che fa bene, e poi quando piove sento i ticchettii, sento il rumore del vento, i fruscii degli animali che passano, i cinghiali, gli istrici, i caprioli. I cinghiali si avvicinano sempre di più alla casa», dice preoccupato.
Al di là c’è un sentiero con i due gabinetti all’aperto, quando uno è pieno lo svuota e utilizza il compost come fertilizzante per l’orto. Sotto la campagna di Cupramontana, dove scorre il torrente la Cesola, poche case si perdono tra la vegetazione. «Quando ci fu il terremoto del centro Italia, io e Siddhartha stavamo leggendo nel letto, la casa tremava di brutto, cadevano oggetti, quadri, scaglie di imbiancatura», racconta Fabrizio mentre camminiamo all’aperto, «sono rimasto impassibile, mentre lui batteva i denti dallo spavento»; più tardi fu il ragazzino a chiedergli di dormire all’aperto, accucciato tra le coperte insieme ai felini Tigre e Gatto.
Racconta che negli ultimi tempi ha avuto momenti di malessere, di depressione, «con Siddhartha ho sofferto parecchio. È stato qui tre giorni la settimana scorsa, ma con me solo una mezza mattinata a raccogliere le olive, poi è scomparso, in giro per le campagne, si è fatto amici i proprietari di un’azienda vinicola, è andato forse a giocare da una famiglia di contadini che hanno due bambine», racconta.
Secondo lui è stata la scuola dell’obbligo a creare i maggiori conflitti, «è sempre cresciuto libero, invece dovevamo stare ore intere a studiare l’angolo del triangolo, l’ipotenusa», dice per rendere l’idea, «le difficoltà ci sono sempre state, ma poi gli esami li superava con il massimo dei voti».
Mi accorgo che ogni volta al centro dei nostri discorsi torna il ricordo del figlio, la vita di Siddhartha qui, parallela alla sua, tutta trascorsa in queste piccole porzioni di casa e di campagna, il loro ininterrotto parlatorio, un dialogo continuo tra padre e figlio, come quelli dell’antichità, anche quando mi fa vedere il coniglio che vive in un recinto dietro la casa, «il coniglio, la tartaruga, il cocorito, tutti animali portati qui da Siddhartha, ricevuti dai contadini di queste campagne».
In quelle case il ragazzino ha visto il mondo consumistico, un cibo diverso, più vario, meno autarchico, «influenzato dall’esterno», dice Fabrizio Cardinali, «ha iniziato a vedere sbagliato quello che faccio io. Hai tanta terra e non ti rende niente! Ha cominciato a rimproverarmi». Adesso sta crescendo, è in piena adolescenza. «Mi ero fatto tante illusioni. Pensavo che la tribù sarebbe cresciuta attraverso i figli, persone che continuano a portare avanti uno stile di vita, mi aspettavo aiuto da lui», dice con il tono basso di voce, «prosecuzione». Gli ha chiesto di scrivergli quando è andato via, ma ancora non ha ricevuto neanche una lettera. Una volta qui ne arrivava una al giorno, adesso molte di meno, racconta, «mi scrivono persone che vogliono venire qui o che ci sono già state». Le lettere di Siddhartha non sono ancora arrivate, ribadisce con rammarico, «ma quando mi sono liberato della raccolta delle olive», promette Fabrizio, «gli scrivo io», dice mentre mi accompagna verso la strada che riporta alla macchina.
Prima mi fa vedere la grotta che suo figlio ha scavato con le sue mani, di fianco alla casa, una caverna come quelle degli eremiti, dove per gioco andava a nascondersi, ci entra dentro, scomparendo, uscendo subito dopo. Dice che in genere durante le vacanze partivano sempre insieme in autostop, «sarei voluto andare in due monasteri buddhisti, come al Santacittarama, in provincia di Rieti, il giardino dal cuore sereno», dice mesto, facendo un sorriso dolce. «Dovrei rivederlo a Natale», mi confessa ancora prima di salutarmi, «per due anni siamo andati sulle montagne piemontesi, in Val d’Ossola, alla ricerca della neve, che a lui piace tanto».
Me li immagino adesso rincorrersi allegramente sui campi innevati con gli alberi ricoperti da una coltre bianchissima, mentre cammino pensoso sulla via del ritorno.