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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

QQAN30 Rotella strappava persino il tempo

QQAN30

«Jeannine ne ha presi una dozzina. Farà la mostra. Io, francamente, non sono d’accordo: siamo sotto la Biennale, non credo sia opportuno presentare cose tue diverse». Il 16 aprile 1964 Plinio De Martiis scrive a Mimmo Rotella e lo informa che la signora de Goldschmidt, moglie del critico Pierre Restany, ha lasciato l’Italia portandosi via un bel numero di photo-reportages: è decisa a esporli nella Galerie J di Parigi. La lettera viene recapitata in carcere: l’artista è da due mesi a Regina Coeli, detenuto per possesso di stupefacenti e materiale pornografico. Nel suo appartamento-studio a Roma teneva giornaletti sexy e marijuana: in attesa del processo (sarà assolto) finisce dietro le sbarre e non può partecipare all’allestimento della sala che ha ottenuto a Venezia. Incarica dunque De Martiis, gallerista e amico, e dà istruzioni. Invia foglietti con appunti fitti e schizzi dei lavori lasciati in atelier: «Esponete questi». Elenca qualche décollage (i manifesti strappati lo hanno già reso celebre) ma, soprattutto, 19 riporti fotografici con i quali ha appena cominciato a cimentarsi: scattava, traslava su tela emulsionata, virava i colori. «Quelle – ricorderà molto tempo dopo – non erano fotografie. Dal momento in cui proiettavo sulla tela cessava di essere fotografia, diventava un’opera d’arte». Eppure nel 1964, Jeannine a parte, gli amici frenano. Il pubblico vuole i manifesti, non esperimenti dell’ultima ora. Il barone Giorgio Franchetti, collezionista e consulente, rincara la dose: «C’è appena stata una mostra di Warhol a Parigi tutta portata sui riporti fotografici. Nascerebbero certamente equivoci». Rotella è in cella e la Biennale inaugura: del suo elenco non resta quasi nulla. Una volta scarcerato corre in Laguna con Lucio Fontana: è il 18 ottobre, vigilia della chiusura. «Rimasi molto male. I miei quadri erano piazzati in una specie di corridoio di passaggio, non si vedevano. Era un peccato: a dire di molti le opere erano tra le più importanti della mostra». Poco dopo, amareggiato, lascia Roma per Parigi, chiudendo un capitolo chiave della sua carriera. 
Gli schizzi dal carcere, le delusioni: ripercorre anche aneddoti di vita Mimmo Rotella. Catalogo ragionato, 1962–1973, secondo volume (dei quattro in progetto) dedicato alla produzione dell’artista. Curato da Germano Celant (ultima fatica del critico che, sopraffatto dal Covid ad aprile, lo segue quasi fino alla stampa) il testo analizza il periodo in cui il décollage deflagra nel pop e nella riflessione sulle fotografie. Scrive Celant: «L’archeologia dell’immaginario, che intrecciava soggetto e oggetto, è messa in crisi dal rivolgimento prodotto dalla tragedia della Seconda guerra mondiale, quando la realtà ha avuto la meglio su qualsiasi aspetto fantastico, sognato e poetico». Gli artisti si connettono alla vita concreta. Rotella trova un mondo inesplorato nei manifesti pubblicitari e cinematografici. Nato a Catanzaro nel 1918, muore a Milano nel 2006: arrivato a Roma nel dopoguerra, si aggira di notte e stacca i cartelloni, lavorandoli poi. Li chiama strappi, sono cesello e stratificazione: «Mette in cornice, con sguardo distaccato, la molteplicità del nostro noi». 
Il testo scandisce: esperienza figurativa e astratta, décollage, riporti fotografici e fase dell’artypo, con i fogli che Rotella recuperava nelle tipografie «creando sovrapposizioni iconografiche casuali, in un progressivo raffreddamento della tecnica», riflette Antonella Soldaini, collaboratrice di Celant e direttore del Mimmo Rotella Institute, nato per seguire il catalogo. «Ogni volume richiede circa quattro anni di lavoro», precisa la studiosa. Sarà lei a curare i prossimi raccogliendo il testimone («Ci siamo incontrati 30 anni fa. Io pensavo: ho dato il massimo. Poi arriva lui: bene, da qui partiamo»). Schedate oltre tremila opere, obiettivo arrivare a diecimila. Il metodo resterà quello di Celant, che non ha temuto di proporre datazioni diverse rispetto a quelle indicate dall’artista stesso. Rotella, infatti, a volte riferiva un lavoro al periodo nel quale era nata la tal tecnica. Per rimettere la cronologia sui binari serve un tracciamento: indagine d’archivio (le lettere dal carcere riemergono dal fondo De Martiis), testimonianze, esame di film e réclame. In caso di incongruenze nasce l’«ipotesi critica di datazione»: il libro riporta l’anno assegnato dall’artista e il presunto. Prendiamo Premier plan. Rotella annota ’63, eppure in primo piano c’è Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene. Il film è del ’65: non poteva avere locandine prima. «L’operazione può impattare sul mercato, è vero. Ma Celant insegna: non temere di dire la verità».