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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

Come il Covid ha cambiato la lingua

Visto ciò che ha portato con sé, non c’è troppo da stupirsi se in inglese il 2020 (letto twenty-twenty: venti-venti) è già usato a mo’ di parolaccia in frasi ingiuriose come «go 2020 yourself!». Forse anche in italiano si dirà in futuro «qui succede un 2020» o «ha combinato un 2020», proprio come da più d’un secolo si fa con il quarantotto: il 1848 dei moti risorgimentali. 
È certo un’esagerazione quella di chi, a partire da quest’annus horribilis, ha addirittura azzardato un’interpretazione di a.C. e d.C. come avanti Covid e dopo Covid. Ma resta il fatto che in quest’anno molte cose sono cambiate: tra le altre, anche il nostro modo di esprimerci.
Un dizionario globale
«I tamponati positivi, anche se asintomatici, dovranno autoquarantenarsi per evitare che le loro goccioline li rendano dei superdiffusori». Una frase che oggi ci suona perfettamente normale, ma meno di un anno fa sarebbe stata impensabile prima ancora che incomprensibile. Perché, ormai lo sappiamo bene, la nuova realtà portata da questa pandemia ci ha costretto a prendere confidenza con molte nuove parole. A partire proprio da quel nome di Covid — maschile o femminile che sia, storpiato o no nell’italianizzazione dialettizzante Coviddi — con cui è stata battezzata la nuova malattia.
Il risultato è uno speciale «covidizionario»: un insieme di nuovi vocaboli, nuovi modi, nuovi usi che con inconsueta rapidità sono entrati a far parte della lingua di tutti i giorni. Trattandosi di pandemia, cioè di un fenomeno globale, la questione non riguarda certo il solo italiano. Anzi: il primo vocabolario ad aggiornare lemmi e significati è stato l’Oxford English Dictionary, che già ad aprile e a luglio aveva provveduto a pubblicare in rete due aggiornamenti straordinari. In una recente intervista, il direttore di quel dizionario racconta di non essere mai stato testimone di una tale ondata di neologismi in un solo anno e di un così rapido e generalizzato incremento del loro uso. Tra gli esempi che fa, c’è quello di Coronavirus: parola risalente agli anni Sessanta, ma rimasta sempre nella ristretta nicchia dell’uso scientifico: ad aprile era già diventata una delle più frequenti nella lingua inglese (più frequente anche di time, cioè «tempo»), salvo essere sopravanzata il mese dopo da Covid 19.
Un discorso analogo si potrebbe fare anche a proposito dell’italiano. È stato calcolato che nella settimana dal 20 al 27 febbraio, la parola Coronavirus ha risuonato nei nostri canali radiotelevisivi una volta ogni 90 secondi. E ancora il mese scorso l’hashtag #Covid19 è stato da noi il terzo più usato in Twitter, dietro a #Dpcm e davanti a #Conte (al primo posto c’era il Grande fratello di #GFVIP).

Parole nuove o rinnovate
Non sarà un caso che anche Biancamaria Gismondi, responsabile della redazione del Devoto-Oli, abbia sottolineato a più riprese l’eccezionalità di quest’annata: eccezionalità che si riflette nell’ampia messe di giunte e integrazioni presenti nell’edizione 2021 del dizionario. Molti sono i nuovi lemmi legati a quest’epidemia: voci che entrano per la prima volta nel vocabolario, anche se non tutte create in questi mesi; così è per autoquarantena, documentata già dal 1983, o per le stesse quarantenare e quarantenato, attestate fin dal lontano 1855. In molti casi, in effetti, si tratta di «neologismi di frequenza»: parole preesistenti che hanno conosciuto una nuova, improvvisa fortuna. Qualcosa di simile vale anche per casi come asintomatico invece di portatore sano e di sanificare sempre più usato al posto di disinfettareo per l’inversione di polarità – normale da tempo in ambito medico – tra positivo e negativo in rapporto all’esito di un test, o ancora per tecnicismi della medicina che fino a poco fa conoscevano in pochissimi: anosmia, disgeusia, dispnea, morbilità. 
Molti sono anche i «neologismi semantici», parole che hanno acquisito nuovi significati. Basta pensare al modo in cui vengono oggi impiegati tamponare e tamponato o alla fortuna delle nuove accezioni di contenimento, diffusore (da cui anche superdiffusore), mascherina. In alcuni casi le nuove voci sono rappresentate da sigle internazionali come Covid 19 e Sars-Cov-2 o basate su parole italiane come dad (didattica a distanza) e Mes (meccanismo europeo di stabilità), oppure da espressioni composte di diversi elementi, come immunità di gregge e paziente zero.
Gli anglicismi non mancano. Ma tranne lockdown (parola dell’anno secondo il Collins, altro dizionario della lingua inglese) che viene di fatto considerata intraducibile, tutte le altre voci inserite nel Devoto-Oli sono definite tramite un equivalente italiano. Un criterio che rispecchia quanto accaduto in questi mesi, in cui si è ben presto passati da spillover a salto di specie, da droplet a gocciolina, da contact tracing a tracciamento, da cluster a focolaio (anche se non è esattamente la stessa cosa), da social distancing a distanziamento sociale (anche se sarebbe meglio definire quel distanziamento come «fisico» o «interpersonale», o – meglio ancora – ricorrere all’espressione «distanza di sicurezza»).
Ironia agrodolceNessuno spazio è lasciato di solito nei dizionari a quei neologismi scherzosi creati quasi sempre mettendo insieme due parole o parti di parola, secondo il meccanismo delle cosiddette «parole macedonia». In italiano abbiamo avuto l’apericall e l’aperizoom, che – sul modello della famigerata apericena — mescolavano l’aperitivo con la parola inglese usata per le riunioni di lavoro a distanza (call) o con il nome di una delle piattaforme più diffuse per questo tipo di comunicazione (Zoom: da cui anche lo zoombombing, il violento intervento di estranei in una teleconferenza).
In inglese si sono diffusi neologismi come covidiot (da noi covidiota) o workcation per le false vacanze di chi lavora da casa: qualcuno, sul modello dell’altrettanto famigerata riccanza, potrebbe forse coniare «lavoranza». Intanto, sta prendendo piede il più neutro staycation con cui si fa riferimento alle vacanze in luoghi vicini (la traduzione ufficiale è «turismo di prossimità»). Espressioni scherzose non mancano anche in francese (oltre ai soliti aperitivi diventati coronaperó e zoomaperó, anche i coronabdó: gli addominali da allenamento casalingo) e in tedesco (ad esempio Corona-Ferien per le vacanze scolastiche dovute alla chiusura delle scuole). Quello che colpisce, nel caso della Germania, è la capacità della comunicazione pubblica di sfruttare questa tendenza con risultati particolarmente efficaci. Come la regola dell’«AHA», che ha trasformato l’espressione con cui si conferma di aver capito qualcosa in una sigla: Abstand, Hygiene, Alltagsmaske (distanza, igiene, mascherina).

Il modo per (non) dirlo
Le varie lingue si muovono in un unico universo lessicale di riferimento e a essere condiviso è spesso anche il repertorio metaforico. Il primo impatto con la nuova, spaventosa, epidemia è raccontato nei media italiani come una peste coi suoi untori e lazzaretti, un terremotocol suo epicentro in Cina o a Codogno, una catastrofe, un’apocalisse. Poi in tutto l’Occidente si diffonde e sembra prevalere la metafora della guerra, cavalcata più o meno esplicitamente dai diversi governi: una guerra contro un nemico invisibile, combattuta nella trincea degli ospedali da medici e infermieri eroi; una guerra coi suoi martiri e le sue tregue. Nonostante le critiche che da più parti hanno segnalato i rischi e le forzature di questo tipo di retorica, l’immagine della guerra contro il Covid rimane ancora molto in voga. «Dobbiamo prima di tutto vaccinare i nostri medici, infermieri, operatori socio sanitari», ha detto qualche giorno fa Luigi Di Maio: «Ovvero chi sta al fronte di questa guerra».
A proposito di metafore, andrà notato il progressivo dilagare un po’ in tutti i campi della metafora del contagio. Un fatto evidente anche negli stessi interventi sulla lingua, che (reiterando, forse inconsapevolmente, una vecchia metafora cara ai puristi) insistono nell’idea di una «lingua infetta», di un «lessico virale», di un virus che «contagia anche la lingua italiana». Più creative, per fortuna, le metafore con cui in questi mesi gli esperti hanno cercato di spiegarci il contagio. «Il virus è come un incapace giocatore di scacchi che fa tutte le mosse possibili in un numero altissimo di scacchiere; poi però arriva un maestro bravissimo che butta via tutte le scacchiere, tranne quella in cui ha fatto la mossa migliore» (Roberto Burioni).

Strategie condivise
Nella prima fase, sull’immaginario dell’emergenza si innesta una strategia discorsiva dominante che fa appello al senso di appartenenza a una comunità: dalla famiglia alla nazione. All’epoca dell’#iorestoacasa, delle bandiere alle finestre, dell’inno dai balconi, anche la comunicazione pubblicitaria vira compatta verso toni domestico-patriottici. Le parole più frequenti negli spot diventano insieme, casa, sempre, grazie, Italia e italiani. Persino il dibattito politico sembra abbandonare quella «volgare eloquenza» fatta d’insulti, strafalcioni e parolacce che lo aveva caratterizzato negli ultimi anni.
Ma poi, quando la morsa dell’emergenza si è allentata, la spinta propositiva verso l’unità d’intenti ha perso forza. Chi avrebbe dovuto non è stato in grado di declinare la generica narrazione della ripartenza in slogan efficaci (passando dall’io al noi, dalla sosta all’azione) e soprattutto in obiettivi concreti. Così, alla fine, la sensazione è stata – come in Happydemia, il paradossale romanzo di Giacomo Papi, recensito nella pagina successiva di questo supplemento da Ermanno Paccagnini – quella dell’«atteso Decreto Io Mi Tappo in Casa di Nuovo (nome scelto dopo un ballottaggio con Io me ne Lavo le Mani)». A prevalere è stato il lessico burocratico, come dimostra il facile bersaglio dei congiunti: «In pratica chi ha congiunti può toccare i congiunti se non hanno disgiunti, ma chi non ha congiunti può toccare i disgiunti sempre che non abbiano congiunti aggiunti». E dopo i congiunti sarebbe stata la volta degli affetti stabili, delle rime buccali, della segnaletica di movimento, degli assembramenti e dei ristori. «Abbiamo condiviso con il Ministro Speranza – si leggeva in un comunicato stampa del 31 marzo – l’opportunità di consentire a tutti i soggetti in età evolutiva, ossia i minorenni con un età compresa nella fascia d’età 0-18 anni, di poter svolgere attività motorie e ludiche all’aria aperta, ma sempre accompagnati da un familiare, nel rispetto del distanziamento sociale, con un rapporto adulto/minore di 1:1».

Narrazioni contrapposte
Troppo presto ci si è adagiati nell’ordinaria amministrazione di una situazione straordinaria, dilapidando il grande potenziale che si era accumulato in quel sentimento di reciproca solidarietà: un piano inclinato su cui è via via scivolata l’autorevolezza della comunicazione istituzionale. Nessuno ha trovato le parole giuste per dare un senso ai nuovi sacrifici, tanto che la responsabilità ha finito con l’apparire una strategia non dinamicamente volta al futuro, ma rassegnatamente statica. Così, la frustrazione strisciante – sempre a rischio di trasformarsi in esasperazione – è diventata terreno fertile per le teorie condensate nella formula della «dittatura sanitaria». Formula che Marcello Veneziani rivendica di aver creato nello scorso marzo, ma ha in realtà una storia ben più lunga. Già nella Roma del 1839, per arginare il rischio di «còlera asiatico», si decise di «istituire una specie di dittatura sanitaria, la quale con sovrano arbitrio operasse franca e spedita». Oggi l’espressione è diventata la bandiera di chi, nutrendosi di teorie antiscientifiche, nega l’esistenza della pandemia o la attribuisce a un complotto internazionale: proprio come gli antivaccinisti, altra parola per cui si può risalire all’Ottocento. Il vaccino – la storia è nota – si chiama così perché era originariamente ricavato dal vaiolo delle mucche (vaiolo vaccino): quello che ci proteggerà dal Coronavirus sta finalmente arrivando, quello contro le bufale forse non arriverà mai.