La Lettura, 13 dicembre 2020
QQAN10 Intervista all’economista Daron Acemoglu
QQAN10
Nel 2015, a 48 anni, Daron Acemoglu fu nominato economista più influente dell’ultimo decennio da Research Papers in Economics. I suoi lavori sono i più citati al mondo dopo quelli di Andrei Schleifer di Harvard e del Nobel James Heckman. Ma Acemoglu non è un tipico professore freddo e cerebrale del Massachusetts Institute of Technology, dove insegna. I suoi libri sul fragile equilibrio fra democrazia, stabilità sociale e istituzioni economiche, scritti con l’antropologo James Robinson, sono bestseller globali (in Italia, per il Saggiatore, Perché le nazioni falliscono del 2013 e La strettoia. Come le nazioni possono essere libere del 2020). Ma è impossibile capire il mix di sensibilità, passione per l’indagine e potenza dell’analisi di quest’uomo, senza pensare alle sue origini: Acemoglu nasce e cresce a Istanbul in una famiglia armena. Per quanto non ne parli mai, la curiosità intellettuale e la forza umana che derivano dall’appartenere a una minoranza segnata dalla persecuzione e dallo sterminio sono percepibili in tutta la sua opera. E in quest’intervista.
I colossi tecnologici usciranno dalla pandemia più forti che mai. Un tempo la loro «disruption», lo spiazzamento, riguardava centralinisti o contabili. Oggi con moneta digitale, paradisi fiscali e controllo dei dati, il Big Tech sta portando la «disruption» agli Stati?
«Non mi piace la parola disruption. Fa molto Silicon Valley e nasconde il problema. Forse ha senso usarla quando si dice che il modello nazionale di raccolta delle tasse sarà oggetto di disruption. Ci saranno cambiamenti e costi di adattamento. Ma per i centralinisti, i colletti blu o i commessi parliamo di sostituzione. Non sono oggetto di disruption nel senso di Silicon Valley dell’essere sottoposti a una sfida e doversi adeguare. No: i loro posti spariranno, con enormi conseguenze economiche e sociali per quelle persone e le loro comunità. È un vero problema. Anche perché Big Tech è diventato un blocco di potere influente come e più della finanza e ha enormi effetti sugli Stati».
Governi e Big Tech in concorrenza?
«Ci sarà anche un po’ di concorrenza, ma in realtà per quanto riguarda gli Stati Uniti e la Cina l’aspetto notevole è quanto i due settori, Stato e Big Tech, siano mano nella mano. Quanto lavorino insieme e si cooptino a vicenda. Quindi non parlerei di concorrenza, ma di coesistenza».
Eppure Xi Jinping, il leader cinese, ha bloccato il debutto in borsa del colosso fintech Ant Financial dopo le critiche del suo fondatore, Jack Ma, alle banche pubbliche...
«Perché Pechino vuole che le imprese tecnologiche seguano la sua linea. In Cina e negli Stati Uniti la situazione è simile, ma ci sono importanti differenze. In America la tecnologia guida e il governo segue; in Cina il governo guida e la tecnologia segue. In ogni caso, i due lati lavorano insieme. Xi è ossessionato dal timore che qualunque parte del settore privato, forse soprattutto il Big Tech, possa agire in autonomia dal potere politico. Interpreterei così il suo intervento su Ant».
Sei mesi fa lei scrisse che la pandemia segna una svolta. Con quattro possibili esiti: tragico «business as usual», la deriva delle diseguaglianze e del populismo; rinnovamento con caratteristiche cinesi; autoritarismo puro («servitù»); welfare state 3.0. Quale stiamo imboccando?
«Non è una scelta che mi aspettavo si sarebbe fatta in sei mesi, ma certamente negli Stati Uniti la continuazione della presidenza di Donald Trump sarebbe stata il segno di un tragico business as usual. Almeno l’opzione welfare state 3.0 ora è un po’ più probabile. Ma non sono sicuro di quel che farà Joe Biden ora che ha vinto le elezioni. Credo che abbia l’opportunità di guidare un’amministrazione storica nel rimodellare l’America e il mondo. È il momento giusto. Per varie ragioni, non credo lo fosse quando Barack Obama era alla Casa Bianca. Anche ora è un compito difficile ma Biden ha molte capacità, è conciliatorio e ha ferme convinzioni: una buona combinazione».
C’è qualche dettaglio che la lascia perplesso, nelle sue mosse?
«Uno: se si guarda alle nomine fino a questo momento, sono tutti insider. In una certa misura, non c’è niente di male. Ma per alcune delle trasformazioni necessarie, c’è bisogno di qualcosa di più».
La diseguaglianza di reddito in America negli anni di Obama è cresciuta più che in precedenza. Troppo potenti le forze che spingono in quella direzione?
«È vero. Le forze che portano la società americana verso la diseguaglianza sono potenti, sì. Ma lo sono a causa delle scelte che noi compiamo. E Obama non ha fatto nessun tentativo di rovesciare quelle scelte. Durante i suoi anni avrei sottolineato di più il ruolo della finanza e della finanziarizzazione, ma l’elemento più importante è la traiettoria della tecnologia. L’amministrazione di Obama era anche più legata alla cultura a senso unico dell’industria tecnologica di quanto lo fosse l’amministrazione di George W. Bush. L’agenda del Big Tech e dei suoi leader contava. Lui ascoltava loro, loro lavoravano con lui. E avevano mano libera nel rimodellare la tecnologia dalla quale tutti noi dipendiamo. È un processo che consiste nell’automatizzare il lavoro, nel non creare opportunità per milioni di persone, nel non provare a mettere all’opera capacità e competenze diverse che noi tutti abbiamo come esseri umani. E l’industria del Big Tech ha finito per rafforzare attività come lo spiare o il monitorare le persone. Tutto questo, con Obama, è andato avanti. E anche sul terreno dei cambiamenti istituzionali che potevano limitare la diseguaglianza, Obama non ha fatto granché. Non ha impresso un aumento significativo al salario minimo, non ha rafforzato la capacità dei lavoratori a basso reddito di conquistare più tutele. C’erano buone ragioni, per carità: aveva le mani legate, doveva gestire la Grande recessione. Ma anche ideologicamente era legato alla tecnologia e alla finanza. E questa è la mia lieve preoccupazione con Biden. Vedo intorno a lui la stessa gente che era lì con Obama».
Biden non sembra più forte di Obama, da vari punti di vista. Non trova?
«Non so, vedremo. Molto dipende dalla forza della personalità, dalla possibilità di trovare gente con cui lavorare fra i repubblicani come fra i democratici e dalla capacità di essere un leader o un follower. Obama è un oratore incredibile e una persona magnifica, ma sulle questioni economiche seguiva, non guidava. Sulla finanza seguiva il suo segretario al Tesoro Tim Geithner, che ha preso decisioni disastrose. E ha seguito l’industria tecnologica su tecnologia e lavoro».
Con la Grande recessione, la Cina ha guadagnato terreno su Stati Uniti ed Europa. Con Covid, di nuovo. Sia in termini geopolitici che per le dimensioni relative delle economie. Le crisi che la globalizzazione sta generando portano a un declino delle democrazie?
«È il motivo per cui lo scenario nel quale i Paesi copiano una versione imbastardita del modello cinese è un pericolo reale. Se andiamo verso un nuovo bipolarismo, né la Cina né gli Stati Uniti avranno l’interesse o la forza di affrontare la supremazia dei colossi tecnologici. E nessuna delle due superpotenze è granché come difensore dei diritti umani. La Cina no. E anche gli Stati Uniti sono sempre stati molto cinici nel sostegno per diritti umani e democrazia, se pensiamo per esempio all’America Latina. Associare la lotta per la democrazia con l’asse americano non mi pare naturale, né sano. Per questo l’Europa dev’essere il terzo polo. E mi piacerebbe vedere Messico, India, Brasile, Turchia e Sudafrica formare un blocco che difenda i Paesi in via di sviluppo».
Questi Paesi sono a un livello di reddito in cui i Paesi europei, negli anni Sessanta e Settanta, diventarono più democratici e meno diseguali. Invece oggi i Paesi emergenti e a reddito medio stanno diventano più diseguali, meno democratici e più legati alla Cina.
«Non so se stiano emulando la Cina o la usino come scusa. Ma sì, quei Paesi in via di sviluppo stanno andando tutti nella direzione di sistemi con leader forti disposti a sopprimere il dissenso».
Lei come se lo spiega?
«Questi Paesi sono così diversi fra loro che è difficile trovare un solo argomento per spiegare le derive autoritarie. Di sicuro però l’involuzione politica è legata alla globalizzazione e alla tecnologia. Assistiamo a un aumento nel nazionalismo, che è compagno di strada naturale dell’autoritarismo. La globalizzazione alimenta il nazionalismo, perché alimenta le diseguaglianze; mette a confronto diverse culture, ma non riesce a creare cooperazione, dato che non abbiamo le istituzioni per generare questa cooperazione. La globalizzazione poi aumenta anche la concorrenza internazionale. Anche su questo abbiamo da imparare dall’Europa, perché è il solo posto nel mondo dove si sia riusciti a costruire istituzioni sopranazionali. Per quanto imperfette siano, hanno avuto molto successo nel mantenere la pace e limitare il nazionalismo».
Negli Stati Uniti, in Italia, Gran Bretagna o in Francia i populisti di destra sono fuori dal governo o in difficoltà. In Turchia, Polonia, Ungheria, Russia, Bielorussia sono sotto pressione. La democrazia liberale vive una rivincita?
«Non è mai stata fuori gioco, ma la rivincita non sarà facile. Non dobbiamo reagire eccessivamente, così come non avremmo dovuto farlo quattro o cinque anni fa, quando iniziò l’ondata dei movimenti antidemocratici e antiliberali. Quando Donald Trump vinse nel 2016, non è che gli Stati Uniti stessero diventando neofascisti o simili. Una maggioranza del Paese era molto contraria a Trump: il pericolo era che distruggesse le istituzioni e in effetti un po’ lo ha fatto. La speranza è che, quando riprendono il potere politici non di estrema destra, non autoritari, ma liberali, conservatori o socialdemocratici, riescano a costruire o ricostruire le istituzioni. Ma il trumpismo non andrà via, non così presto. Malgrado il caos terribile e la malagestione del Covid, Trump quest’anno ha preso quasi 70 milioni di voti. È incredibile. Dunque quella base di sostegno non sparirà, come non sparirà in Austria o in Italia».