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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

1QQAFM10 La vita di Biamonti al confine

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Non c’è scrittore più coerente di Francesco Biamonti. Coerenza di stile. Ha osservato opportunamente Vittorio Coletti: «Proprio quello che può essere (per certuni) anche un suo limite (l’uniformità stilistica lungo i vari romanzi), diventa la sua forza: Biamonti ha un’identità, una forte identità». Provate a chiudere gli occhi e ad ascoltare un paragrafo di Biamonti e lo troverete unico e inconfondibile. Può somigliare a certe reticenze di Pavese, a certe sentenziosità di Sartre, a certe depressioni di Camus (fin qui sempre Coletti), oppure alle tessiture appena accennate di Lalla Romano, ma Biamonti è pur sempre ostinatamente Biamonti. Lo si riconosce ad apertura di pagina, anche se appunto nelle sue pagine soffiano venti francesi e piemontesi, oltre ai suoi, liguri di Ponente e pure di Levante. 
Biamonti rappresenta, nel panorama della narrativa italiana del secondo Novecento, una voce insolita, fuori dalla mischia dei generi, delle mode, delle tendenze. Proprio nel momento in cui la letteratura italiana irrompeva nei generi (noir, thriller, giallo) con maggiore impeto, Biamonti pubblicava nel 1991 il suo secondo romanzo, Vento largo, che resta forse l’apice della sua arte per la solitudine aspra dei personaggi e per i silenzi sospesi su un paesaggio sempre cangiante. Aveva scelto di starsene per conto proprio, Francesco, appartato davvero (non per posa autopromozionale, come più spesso avviene), abitava da sempre a San Biagio della Cima, vicino a Bordighera, da dove poteva raggiungere quasi quotidianamente la sua Nizza, amava definirsi (ed era stato) un coltivatore di mimose e di eucalyptus populifolia, ma soprattutto era un ex bibliotecario (a Ventimiglia) che non aveva mai smesso di leggere gli autori amati, soprattutto i francesi, Proust e i simbolisti, René Char, Francis Ponge, e poi naturalmente Montale, Sbarbaro, Sereni. Bisognava stanarlo e si lasciava stanare solo dagli amici e da chi aveva voglia di parlare di letteratura. E di pittura e di musica. 
«Uno scrittore si riconosce subito dalla musica che ottiene dalla lingua», ha detto in una delle rare interviste. Anche per questo, forse, a introdurre il volume della Lettura Einaudi che contiene i primi tre romanzi, scritti tra il 1983 e il 1994 (L’angelo di Avrigue, Vento largo e Attesa sul mare), è stato chiamato il compositore e musicologo Carlo Boccadoro, che va cercando affinità espressive via via con Ravel, con Schubert, ma anche con Arvo Pärt, John Cage, Luigi Nono. E in effetti la sensibilità per le trame sonore (più che per le trame narrative) è fondamentale per apprezzare al meglio la prosa di Biamonti. 
Che cosa racconta questa prosa musicale? Intrecci esili che al solo sfiorarli, come ha scritto Pietro Citati, rischiano di sfarinarsi. Gregorio, nel primo romanzo, è un marinaio imbarcato sui cargo, che torna al suo paese, Avrigue, nell’entroterra ligure, in fuga dal «male di ferro», la sindrome che colpisce i marinai nelle lunghe traversate. Quando viene a sapere della morte del suo amico Jean-Pierre precipitato da una rupe, a Gregorio non resta che mettersi a cercare le ragioni di quella morte vagando fino a spingersi a un nuovo imbarco. Con Vento largo siamo ad Aurno, «paese di arenaria che muore», dove il contadino Varì ha lasciato le sue terre bruciate dal gelo per fare il passeur, cioè per accompagnare clandestini, disperati, forse delinquenti, per le Alpi Marittime, dall’Italia alla Francia: a spingerlo verso quella attività impervia è stata Sabèl, seducente raccoglitrice di lavanda sugli altipiani, in fuga nell’isola di Saint-Honorat. È la storia di un amore accarezzato con il pensiero e poco più. Attesa sul mare racconta di Edoardo, comandante di lungo corso che si ritrova, nell’ultimo ingaggio della sua carriera, a portare da Tolone verso la Bosnia una partita di armi: la navigazione sembra filare tranquilla finché la radio tace e il destinatario pare dissolversi nel nulla costringendo i naviganti a un’attesa irreale. La trama è tutta qui, anche se con questo terzo romanzo (cui seguirà Le parole la notte nel 1998) Biamonti si muove con cautela verso il romanzo d’azione. 
Va detto che in realtà, dentro quei romanzi-paesaggio (copyright Calvino), dentro quei silenzi metafisici che evocano le pitture di Cézanne si insinuano i tarli lugubri del presente: nel primo la piaga della droga giovanile, nel secondo il passaggio clandestino delle frontiere, nel terzo le guerre che hanno piagato il secolo breve, in tutti l’offesa all’ambiente naturale e l’invadenza della modernità turistica. È ancora Coletti a ricordarci che i romanzi di Biamonti sono «radicati nel loro tempo e l’istanza esistenziale e metafisica che li pervade non annulla, anzi esalta la concreta realtà storica di riferimento...». 
Resta un’evidenza confessata dallo stesso Biamonti al «Magazine littéraire» pochi mesi prima di morire: «Per me, niente può essere concepito senza un legame con il paesaggio». Bene ha scritto Giorgio Ficara: «Per Biamonti, il paesaggio è ciò che snerva la narrazione e alleggerisce il personaggio dei suoi pesi tradizionali – il desiderio, i rapporti di forza, l’identità stessa – e lo rende quasi pensiero in atto». Si tratta sempre, o quasi, di personaggi ben consapevoli di essere ovunque di passaggio, passeur di terra e di mare, passeur della vita, dei sentimenti, sempre in bilico, sul confine tra un al di qua e un al di là («Andiamo andando», è un motto di Varì). 
In essi, come negli stessi ambienti naturali, gli opposti convivono e si alternano, variano e trascolorano uno nell’altro: luce e ombra, voce e silenzio, turbamento e quiete, precisione e indefinito. Sicché quella che sulle prime appare come immobilità di visione (e di spirito) è invece continua variazione nella precarietà (i verbi di movimento prevalgono nettamente: si sale, si riprende, si aggira, si scende, si cammina, si passeggia, si lascia, si raggiunge...). Ma mentre gli esseri umani tendono a una trasparenza assoluta e a una leggerezza assorta (qualità di ogni passeur che si rispetti), le luci, i venti, le stagioni, i colori acquistano consistenza di corpi solidi: il blu grava sulla notte, la luce rotola sull’altopiano, le ombre sono d’alluminio. L’etica di Gregorio, di Varì, di Edoardo (come quella del loro autore) è la discrezione, l’attraversare i confini, la natura, le esistenze degli altri senza darlo troppo a vedere: da qui le pause, i silenzi, le omissioni, le vaghezze dei dialoghi, spesso privi di battute conclusive, che contrastano con la precisione scientifica, materica della natura, delle artemisie polverose, dei glomeruli, del capelvenere, degli anemoni di Caen, delle dulcamelie. La reticenza di Varì sulla propria vita («Non voglio raccontarla. Non riesco a parlarne... Tornano tutte le offese del passato...») lascia volentieri il passo al rumore del vento: «Il vent-di-damo o vento delle libellule, che portava cirri e ragnateli e altre nuvole leggere».