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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

Intervista a Stefania Rocca

Al telefono? “No, almeno vediamoci sul computer”.
Stefania Rocca deve (almeno) guardarti in volto, deve capire, percepire, ridurre le distanze, affrontare il contrasto se necessario, polemizzare con garbo, ricostruire e smussare ogni accento divistico o egoriferito.
Così, all’inizio, incastonata in una bellissima casa totalmente bianca (“prima era nera”), davanti al secondo caffè per cacciare gli ultimi echi del sonno e sulla testa un’aureola dovuta alla falsa prospettiva di una lampada ad arco, il suo dichiararsi “punk” potrebbe apparire stonato, o quantomeno forzato.
E invece se il punk è libertà, lei a sette anni ha scelto di diventare attrice, al primo film ha detto un no gigantesco al regista (“non mi tolgo le mutande”); è andata a studiare all’Actors Studio di New York subito dopo il ruolo da protagonista in Nirvana (“per pagarmi le lezioni private ero tornata cameriera”), si disinteressa di orari e obblighi (“anche i miei figli stanno diventando come me”) e il suo curriculum racconta la libertà di passare da ruoli drammatici, quasi psichedelici, a quelli più leggeri e popolari come in Tutti pazzi per amore e ora in Cops con Claudio Bisio (ultima produzione Sky, in onda per due puntate da domani). E guidata da una serie di registi, da Salvatores a Minghella, da Abel Ferrara a Branagh, come poche altre attrici italiane.
Il suo percorso sembra quasi nascosto…
Un po’ è colpa mia, mi vendo male, e un po’ in Italia non tutti sono contenti se partecipi a progetti importanti.
Il cinema per lei.
Per me anticipa, educa o racconta una società; uno può anche portare sullo schermo una storia irreale, ma quella stessa storia avrà un’incidenza sul pubblico e sulla società; e poi, attraverso la fantasia, si può affrontare qualcosa di nuovo: ben venga se accade attraverso personaggi femminili.
Che non sono tanti.
In Italia non trovo un esempio di film al femminile; forse l’ultimo è La pazza gioia di Virzì.
Quel ruolo è stato un grande sforzo per la Ramazzotti.
Qualcosa di simile mi è successo a teatro quando ho interpretato Giovanna d’Arco, ma ero all’inizio e forse ho peccato d’inesperienza; ricordo Walter Le Moli (il regista, ndr) che arriva, mi guarda e mi avverte: “Dobbiamo rasarti i capelli, ma non durante le prove, preferisco il giorno prima del debutto, così senti l’effetto”.
E…
Ho accettato: subito dopo il taglio, ho indossato un cappuccio per non vedermi; una volta in scena, quando mi sono scoperta la testa, ho sentito un diffuso “oh, poverina”. Quell’onda emotiva mi ha avvolta a lungo, oltre lo spettacolo: ero talmente dentro il personaggio che per un po’ di tempo mi sono chiesta se quello che vedevo era reale o frutto di visioni.
Ha mai detto “no” a un ruolo o a una scena?
Mi sono sempre piaciuti i ruoli forti, la mia curiosità mi porta a vivere altre vite, scardinare i pregiudizi rispetto a un personaggio o a noi stessi: questo è il divertimento, il bello di questo mestiere; però ho rischiato più all’inizio di adesso.
Perché?
Sono in un’età in cui non ci sono i ruoli, per questo sono tornata al teatro.
In questi mesi, senza palco, l’artista è stato costretto a vivere la propria vita.
Assolutamente, anche se, da sempre, mi interrogo fin troppo; (sorride) comunque non lavoro da febbraio e in questo frangente mi sono occupata di attività alle quali non ero abituata, come pulire casa e stirare, oltre a partecipare alla fondazione di un’associazione di artisti, Unita.
Con lei Gabriele Muccino ha girato il suo primo lavoro, un cortometraggio…
Me lo aveva proposto come forma di presentazione, per poi arrivare al primo film, Ecco fatto, e insieme lo abbiamo mandato a Domenico Procacci (produttore, ndr); nel momento in cui era tutto pronto, mi propongono il ruolo da protagonista in Viola: ho accettato.
E…
Per anni Gabriele non mi ha parlato; però Viola è stato un film innovativo, anticipatore, parlava di sesso in Rete. È uno dei miei preferiti.
Si rivede?
Non mi capita mai.
E con i suoi figli?
Non sono così egocentrica, non sono un’attrice che indica il televisore al grido “guardate, c’è mamma”; hanno visto Cops, ma evito di insistere, non voglio schiacciarli con l’ego.
Stefania Rocca punk.
Non sono cambiata molto, l’approccio alla vita è lo stesso.
La vita non è la stessa.
Sono mamma, quindi dentro un meccanismo più borghese, ma viaggio sempre sui binari a me consoni.
Lei ragazza a Torino.
Amici, parco, biblioteca, la sera un locale rock, viaggi all’estero, in particolare Londra.
Cosa sognava?
Per me era chiaro già il futuro: diventare attrice, libera e indipendente.
Quando lo ha capito?
Da bambina, a sette anni, credevo di poter cambiare il mondo attraverso le immagini cinematografiche, o di cambiare la realtà con la finzione.
Il suo film dell’infanzia…
(Inizia a cantare) La storia infinita e adoravo la possibilità di stare per due ore tutti zitti in un’altra dimensione.
Il suo primo giorno su un set.
A Torino, avevo 16 anni, e mi avevano chiesto di girare una scena per un film straniero, ambientato a Superga. Io felicissima. Con qualche problema: i miei genitori non sapevano nulla, quindi la liberatoria la firmò mia sorella; quando mamma scoprì la furbata, decise di colmare il gap e coprirmi con papà.
E l’Actors Studio?
Un caso: avevo finito di girare Nirvana insieme ad Abatantuono e Rubini e mi ero un po’ spaventata, credevo di non essere all’altezza di stare accanto ad attori di quel livello; (ci pensa) mi sentivo in difficoltà perché non avevo completato gli studi al Centro Sperimentale, anche se ne ero uscita appena due mesi prima del diploma.
Quindi?
(Sorride) Una volta a New York, per studiare l’inglese, mi iscrivo a un college; peccato che i miei compagni erano soprattutto cinesi e giapponesi, con loro uscivo pure la sera: appena ho iniziato i provini, ogni volta mi chiedevano il motivo del mio “accento strano, quasi orientale”.
Soluzione?
Per pagarmi un coach e rimediare, ho iniziato a lavorare come cameriera e a miscelare cocktail; proprio il coach mi ha consigliato l’Actors, e lì si è aperta una realtà affascinante, in cui, oltre ai ragazzi, vedevi professionisti come Al Pacino e Julienne Moore preparare le scene.
Torniamo a Nirvana e ai dubbi.
Non semplice: il primo giorno sul set tremavo, mentre loro sono stati calorosi, inclusivi.
Secondo la Golino, Rubini è un uomo pericoloso.
In che senso?
Sentimentalmente.
Allora sì; ma io ero un maschiaccio, sono entrata nel loro gruppo fondato sul cameratismo.
Ha lavorato con un altro “pericoloso” come Abel Ferrara.
Gli voglio molto bene, a me i matti creativi piacciono, e lui è uno in grado di cambiare tutto il set all’ultimo; un giorno arriva, vede il programma di lavoro e sentenzia: “Non mi piace, troppo comune”. Quindi se ne va, noi in attesa, e quando torna aveva deciso di girare dentro uno stanzino, senza niente. Aveva ragione. È il genio maledetto che viene fuori.
A volte poco lucido, però.
In quel periodo si drogava moltissimo, e lo rivendicava come necessità per mantenere un equilibrio acquisito; (ci pensa) è stato poi bravissimo a uscirne, ora è pulito, non beve neanche più, va in giro con la bottiglia di acqua minerale.
Con quanto si è diplomata?
Se non sbaglio 58, ma non ero studiosa. Approfondisco più oggi.
Ha sempre l’ego a bada.
Ma no, avevo scelto quella scuola solo perché si studiava psicologia, e la psicologia era il mio piano B.
Di nuovo: ha sempre l’ego a bada.
L’attore, per essere tale, deve mettere da parte il proprio Io, altrimenti uno recita sempre lo stesso ruolo; quando rivedo i mei film, e magari ritrovo me stessa e non il personaggio, m’incazzo.
All’inizio della carriera si è spogliata più volte…
Solo se necessario alla storia; per il vero esordio, in Poliziotti, interpretavo una ragazza tossica, e per pagarmi una dose andavo con un tizio, ma nella sceneggiatura non era specificato nulla; arrivo sul set, e trovo Giulio Base che mi dà le indicazioni: “Ora farai sesso con lui, togliti le mutande”. “No”. “Ma il personaggio è questo…”. Da lì una litigata furibonda.
Il finale?
Mi sono tenuta le mutande, super protetta.
Al primo film non molte avrebbero avuto tale carattere.
Eh, lo so. Ma i registi, l’ho capito con gli anni, ti mettono alla prova, in un rapporto di gioco-forza. Infatti con Giulio siamo diventati amici.
È molto quadrata.
No, ho solo consapevolezza di me stessa, sono sempre stata attenta a non farmi prendere per il culo; (ci pensa) per me “quadrata” vuol dire rigida, e non mi ci vedo, anche perché ho evitato le sovrastrutture; in realtà, col tempo, ho provato a smussare i miei angoli, per risultare meno diretta e magari meno antipatica, ma non ci riesco.
In Cops è con Bisio.
È un grande attore, con grande esperienza, uno in grado di contribuire al giusto clima sul set, e non è un aspetto secondario; (ci pensa) torno indietro per un esempio: sul set di Nirvana un giorno dovevo girare una scena con Christopher Lambert, e lui aveva palesemente le palle girate, tanto da deconcentrarmi. Salvatores se ne accorse e mi chiese: “Riesci senza di lui?”. “Meglio!” E Christopher: “Hai ragione, scusa”.
La morale?
È fondamentale chi hai davanti e intorno, come si rapporta al lavoro e a te: Bisio in questo è fantastico perché crea l’atmosfera giusta.
Quando ha preso consapevolezza della fama…
(Silenzio prolungatissimo) Sto pensando se me lo sono mai detta; (altro silenzio) ero a Napoli per uno spettacolo, ancora con i capelli blu per Nirvana, cammino per la strada e un ragazzino mi urla: “Ma che sei del Napoli? Brava!”. Poi la sera vado a bere una birra con gli amici, e dopo un po’ un tipo si ferma davanti a me e con modi stupiti esclama: “No! Dimmi che non è vero”. “Cosa?” “Sei veramente tu? Sei Naima”. “Sì”. “Ti prego no, Naima non può essere reale, mi stai togliendo un sogno. Adesso esco, e tu fai finta di non avermi mai visto”. L’ho capito e apprezzato.
Il supereroe.
Da bambina Lady Oscar, poi Batman.
Vizio.
Una quadrata non può avere vizi.
“Quadrata” è stata archiviato.
Allora ne ho tantissimi, ma li definisco piaceri.
Mania.
Non ho orari, ho una vita senza regole: mi sveglio quando voglio, dormo quando ho sonno, e i miei figli stanno seguendo questa forma. Ah, dimenticavo, non sono ordinata.
Chi è lei?
E chi cazzo lo sa?