Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2020
L’Everest prima di Everest
Cento di questi anni, caro, vecchio Everest. Il 20 dicembre 1920, da New Delhi arriva a Londra un telegramma di Charles Bell, viceré dell’Impero anglo-indiano: «Bell telegrafa di aver illustrato al Dalai Lama il progetto e la necessità di attraversare il territorio del Tibet, e ha ottenuto l’approvazione del suo Governo». Inizia così la storia secolare degli uomini e delle donne ai piedi del Big E. La vetta più alta del mondo, 8.848 metri (per la precisione, 8.848,86 come da intesa appena raggiunta fra Pechino e Kathmandu), è sogno, incubo, paura, vertigine, turbinio. È alpinismo, sport, politica, guerre più o meno dichiarate, è un poema epico fatto di storie esemplari, di tragedie immani, di speranze che albeggiano, trovano un varco e portano luce. Quella che troviamo nel libro Everest. Una storia lunga 100 anni, scritto dal giornalista e filmmake r Stefano Ardito per il compleanno del Chomolungma, che in lingua tibetana significa «Dea del vento, Dea del luogo» e che viene rappresentata mentre cavalca una tigre.
Il telegramma di Bell è l’inizio di un’avventura, e di una profanazione: piedi occidentali sulle sacre pareti adorate dagli sherpa (letteralmente «popolo dell’Est»), un popolo di etnia tibetana e di fede buddhista. Ma la montagna era stata violata ben prima, già nel cambio di nome. Nel 1865, con logiche molto burocratiche, il Peak XV prende il nome attuale in omaggio – anche se il diretto interessato aveva opposto resistenza – a George Everest, primo direttore del Survey of India, l’ente che si era mosso per descrivere in qualche modo la catena himalayana. I piedi sono la misura di tutte le cose, come insegnavano i Pundit, i nativi che viaggiavano travestiti da pellegrini e mercanti e usavano i passi e il mala, il rosario dei buddhisti, per disegnare le loro mappe. L’Everest prende forma fra passi, cartine e teodoliti e, nella corsa alla vetta, gli occhi e le parole fanno il resto del fascino della cattedrale bianca. Così, Mark Twain la racconta ammirandola da Darjeeling: «Vidi il sole allontanare il velo grigio, poi toccare una dopo l’altra le vette innevate con pallide macchie di rosa e con delicate pennellate d’oro, e finalmente inondare l’intera poderosa convulsione di montagne innevate con un diluvio di ricchi splendori».
Dopo l’ok del Dalai Lama, non si perde tempo. Dal 1921 al 1938 sette spedizioni, tutte britanniche, tentano la vetta. A George Mallory, in partenza per l’India, un giornalista chiese perché proprio l’Everest: «Because it’s there». Era lì, era una tentazione, era la storia da fare ed era ambizione da assecondare. Fu, per Mallory e il suo compagno Andrew Irvine, la tomba, lasciando un interrogativo irrisolto nella storia dell’alpinismo: morirono salendo in vetta o scendendo?
La depressione economica e i venti di guerra affossano il sogno bianco. Poi, nel 1947, finisce il British Raj e la corsa all’Everest si svolge sul versante nepalese anche perché la nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949 e la ribellione di Lhasa sigillano il Tibet. A quel punto, dopo tanti fallimenti dai quali imparare, a fare la storia è una spedizione inglese, con il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay in vetta il 29 maggio 1953. Il vento ruggisce come mille tigri, le pareti bianche sono abisso, i corpi diventano pietra e le mani tremano ma il traguardo è conquistato e, prima di scendere, Tenzing si inginocchia sulla neve, scava una piccola buca, vi depone del cioccolato e altro cibo come offerta per gli dèi, padroni del bianco.
Attrezzature e abbigliamento sono migliori che in passato, le spedizioni si susseguono come le pagine del racconto, una cavalcata di volontà, di pianificazione millimetrica e sconfitte. Ci provano gli svizzeri, l’Urss, gli americani e i cinesi per i quali è un vero affare di Stato e, quando il pericolo spaventa, Qu Yinhua e Gonbu rispondono: «Siamo a un passo da completare una gloriosa salita alla cima, possiamo tornare indietro? Il nostro popolo ci guarda, andiamo avanti».
Vengono aperte nuove vie, tutte più difficili delle precedenti, e con Elizabeth Hawley, una americana di Chicago, che dal 1960 vive a Kathmandu e gestisce l’Himalayan Trust a fare da cronista: lei interroga alpinisti e sherpa ed è la Sherlock Holmes dell’Himalaya, sa tutto di tutti, tanto che le hanno dedicato anche una vetta, il Peak Hawley.
Nel 1973 Guido Monzino dirige la prima avventura italiana, nel 1975 è il trionfo della prima donna, la giapponese Junko Tabei, nel 1978 Reinhold Messner e Peter Habeler compiono l’impresa senza le bombole, nel 1980 i polacchi nella stagione invernale: «Solo oltre i 7.300 metri, quando a volte non si riusciva neppure a camminare perché il vento ti faceva piegare su te stesso – ricorda l’alpinista Krzysztof Wielicki -, avvertii la forza degli elementi naturali». E sempre nel 1980, Messner ruba la scena. Arriva in vetta in solitaria, lassù dove «l’aria sa di vuoto e ruvido» perché «io sono Sisifo».
I pionieri del Big E sono nei libri di storia, ora vanitosi e milionari mettono sul piatto 50mila dollari a testa per l’avventura e il tempo delle spedizioni commerciali ha invaso l’Everest: «non è alpinismo, ma turismo d’avventura», sentenzia Messner. Si sta in coda lungo le vie bianche a 7-8mila metri di quota come in un qualsiasi centro commerciale. Così, i tibetani hanno trovato una fonte di guadagno certa e redditizia, ma gli dèi della montagna borbottano. Troppo rumore, troppo mercimonio: lo dicono i numeri. Negli anni 50 raggiunsero la vetta sei persone. Nel 2019, 876 in cento spedizioni. Nel 2019 anche un altro record, al limite del disumano: l’alpinista nepalese Nirmal Purja realizza il Progetto 14/7: tocca in sette mesi i 14 ottomila dell’Himalaya e del Karakorum.
Nulla è precluso ormai ma restano le domande eterne della natura. Nel 1922 il lama Tenzin Rinpoche, ricevendo gli alpinisti britannici della seconda spedizione, scrisse, sconsolato: «usano arti magiche con chiodi, catene e artigli di ferro. Ho provato grande compassione per loro, che soffrono per un lavoro così inutile». Ma è lo spirito che guida verso il cielo, è una fuga per la vita, per avvicinare gli dèi e l’infinito. È l’inesausta ricerca di sé perché, ce lo ricorda Jorge Luis Borges, «qualsiasi destino, per quanto lungo e complicato possa essere, consiste in realtà in un unico momento, il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è». Il Chomolungma è proprio quella verità, un momento unico lungo cent’anni.