Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2020
Ludwig van Beethoven nelle memorie altrui
A un esatto quarto di millennio dalla nascita (Bonn, domenica 16 dicembre 1770, data non ufficialmente accertata, ma suggerita dall’atto di battesimo che si conserva, lunedì 17 gennaio), sarebbe ragionevole attendersi in Europa, un po’ meno in Italia, una doviziosa messe di attività celebrative, esecutive, musicologiche e storiografiche nel nome di Ludwig van Beethoven. L’esito è ancípite: peggio di ciò che si sperava (ma prima della pandemía!), un po’ migliore di ciò che si temeva e ancora si teme. La qualità è mediamente buona; la quantità delude. Colpa di Covid-19? Ma proprio in questa fine d’anno i titoli sembrano prendere la rincorsa. Ne indichiamo un paio.
Chiunque abbia frequentato la letteratura viennese conosce un fenomeno frequente nella letteratura austriaca tra le due guerre mondiali, e preannunciato fin dall’inizio di secolo. È la diffusa tipologia di scrittori molto operosi nei generi più svariati, dalle biografie di personaggi illustri alla narrativa (più racconti che romanzi), dalla poesia al teatro, dal saggio icastico o nostalgico all’estemporaneo libretto d’opera. Caratteristica prevalente: sono scrittori dal foltissimo lascito, che sfuggono a una definizione di genere, poiché sono attratti da ogni tema possibile pur senza essere “specialisti” nell’uno o nell’altro, eppure sempre di qualche linea sopra il buon livello amatoriale e di qualche linea sotto il capolavoro assoluto e memorabile. Oggi, essi sono in diversa misura oscurati dalla grandezza di chi ha svelato, dopo la frantumazione politica e storica della Mitteleuropa, l’immensità della grandezza e tragedia della multilingue civiltà letteraria austriaca meglio austro-danubiano-carpatica: Robert Musil, Franz Kafka, Karl Kraus, Hermann Broch, Joseph Roth, Heimito von Doderer... Sono i grandi solitari che hanno rivelato, dopo la catastrofe e lo smembramento, l’essenza e lo spirito dell’Austria felix come idea eterna, usando impietosamente ora il microscopio, ora il telescopio, ora il sudario funebre. No: qui alludiamo agli scrittori socievoli, amati dal pubblico, impegnati nelle istituzioni pubbliche di un’Austria amputata, con una testa enorme, Vienna, e un corpo ridotto a minime dimensioni, oppure attivi in circoli letterari musicali. Più che austriaci, li chiamiamo scrittori viennesi, magari boemi e magiari d’origine. Il più ragguardevole è Stefan Zweig, intellettuale di genio dall’indomabile energia, ma aggiungiamo, fra i maggiori, almeno Anton Wildgans, Max Brod, Franz Werfel.
Si diceva: in varia misura, li copre ancora il cono d’ombra dell’eclissi. Infatti, pochi italiani hanno nozione di Felix Braun, nato a Vienna mercoledì 4 novembre 1886, morto a Klosterneuburg in Bassa Austria giovedì 29 novembre 1973. Di famiglia ebraica, figlio di un contabile, studiò filosofia e storia dell’arte all’Università di Vienna. Per qualche tempo fu segretario di Hofmannsthal, e fu in relazione (non sempre in amicizia) con Thomas Mann, Hans Carossa, Rainer Maria Rilke. Tra il 1928 e il 1938 fu libero docente nelle Università di Palermo e di Padova, e in quegli anni si convertì al cattolicesimo. L’esperienza italiana lasciò in lui forti tracce. Dal 1939 al 1951 fu emigrato in Gran Bretagna, e insegnò varie letterature e storia dell’arte. Un irrequieto.
Il libro qui segnalato, Beethoven im Gespräch, appare di rado nei cataloghi delle opere di Felix Braun da noi consultati: ciò avviene poiché si tratta di un lavoro nel quale egli è Herausgeber, ossia curatore. Tutto il libro è un’antologia di testimonianze dirette o indirette su Beethoven, raccolte ed esposte secondo un filo conduttore abilmente nascosto da Braun, il quale interviene soltanto in una breve introduzione che fa per così dire gli onori di casa, e nelle pagine di raccordo in cui presenta ciascuno scrittore-fonte. Questa fisionomia, di mosaico costituito da pensieri propri a altrui su un tema preciso, è anch’essa molto “viennese”: a un livello superiore e filosofico, la riconosciamo per esempio nel sublime Buch der Freunde (Libro degli amici) di Hugo von Hofmannsthal. Nello stesso tempo, leggere un libro come questo di Braun, senza cercare esattezza filologica e tanto meno materia musicologica, ci avvolge con una sensazione di buona e confortevole accoglienza: con il senso della nostra civiltà, la cui laica essenza ha nome “Europa”, come sognava Stefan Zweig, e l’Occidente come lo amava Rougemont è esclusivamente Europa, che non a caso da Beethoven ha ereditato l’inno. Ci dispiace per la giornalista che l’8 dicembre scorso, a «Prima pagina» su Radio Tre, ha parlato, su altro tema, della “stupidità” (da noi, lo confessiamo, laicissimamente condivisa e impugnata come bandiera) della parola “Occidente”.
Certo, la massima parte degli episodi e delle parole dette da Beethoven che noi troviamo in questo libro si trova a frammenti in svariate fonti, citate con esattezza scrupolosa nella bibliografia, della quale ringraziamo i due eccellenti curatori italiani, Rizzardi e Zucconi. Quasi sempre, l’episodio ricordato dal testimone in una lettera o in un racconto orale è una risposta che colpisce il narratore, e ce n’è una che compare più volte. Per esempio, il conte Franz von Pocci narra di quando, per un’emergenza, dovette dormire in una stessa camera d’albergo con Beethoven, e quest’ultimo si destò e si alzò dal letto con frastuono, disturbando il compagno d’alloggio, e replicando alle rimostranze di quello gli spiegò che egli doveva vestirsi e uscire incontro alla tenue striscia albeggiante visibile dalla finestra poiché soltanto così gli si componevano nella mente le immagini e gli rimbalzavano contro prendendo forma di note, di suoni, di musica.
Rispetto al lavoro di Felix Braun, bell’esempio “old fashion” di saggistica “wienerisch” tra le due guerre, il libro di Saverio Simonelli, giornalista (soprattutto televisivo), germanista e traduttore, si pone in tutt’altro ambito. Propriamente, è un romanzo. Per la narrativa italiana, è una vistosa novità, se si considera che fra gli scrittori italiani delle ultime due generazioni l’analfabetismo musicale è quasi assoluto, tolte due o tre eccezioni, e non ha nulla da invidiare al super-blindato analfabetismo musicale (talora, non soltanto musicale) degli esponenti dei tre fondamentali poteri dello Stato.
Si veda sempre le Liste degli altri di Severino Salvemini, da noi spesso citate come impudiche e perciò benemerite rivelatrici di altarini. Che uno scrittore e giornalista italiano vivente e giovane scriva un romanzo un po’ poliziesco-filosofico e un po’esoterico avente Beethoven come centro è un fatto dato incredibile da meritare, di per sé, il plauso. E qui, ci dispiace per quel sottosegretario del governo poco importa se Monti o Letta o Renzi, che disse: «Come quei vecchi noiosi professori che citano Dante e ascoltano Beethoven…». Attenzione, però. Cercando Beethoven è un testo avvincente come trama e tipizzazione, e l’autore lo sospinge verso un desiderabile livello di energia culturale. Il giovane Wilhelm, insieme con due compagni di vita e di destino, vuole entrare in relazione con Beethoven, notoriamente poco accessibile, e questo spira un’aura di Bildungsroman alla Wilhelm (appunto) Meister. Ma c’è un tema narrativo, un misterioso manoscritto la cui conoscenza potrebbe sconvolgere il mondo, che ci porta pericolosamente vicini a qualcosa di già troppo sfruttato.
Per carità, non alludiamo a un famigerato guazzabuglio di Dan Brown: piuttosto al ben costruito giallo di Franco Pulcini su un omicidio al Teatro alla Scala. Temiamo che questo sia un elemento di debolezza per un romanzo il cui autore è certo un talento interessante, e la sua presenza tende, alla fine, a rendere il mistero più essenziale di quanto non risulti essere la musica di Beethoven. Naturalmente, c’è una regola: di una narrazione in cui esista il mistero è vietato, al recensore, raccontare o riassumere la trama. Ci sembra elementare- Auguri!