Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2020
Pavese in viaggio con Walt Whitman
È cominciato così, con una dettagliata e a tratti ingegnosa “dislettura” di Walt Whitman, il viaggio dello studente Cesare Pavese nei labirinti della letteratura. Dalle colline a saliscendi delle Langhe all’Università di Torino; e dall’ufficio di consulente – nonché redattore, autore e traduttore della Einaudi – fino alle soglie di un continente dove non sarebbe mai sbarcato ma di cui contribuì a consolidare il mito.
È da poco in libreria, pubblicato da Mimesis, un volume che si intitola: Interpretazione della poesia di Walt Whitman; sottotitolo:Tesi di laurea 1930. L’ha curato Valerio Magrelli ed è una bella sorpresa per il lettore che non sia uno specialista di letteratura italiana del ’900 e che di conseguenza non abbia mai letto questo lavoro di esordio.
Ho detto che si tratta di una “dislettura”, ma non nel senso in cui Harold Bloom intendeva tale termine. Non riguarda “l’influenza poetica”, fatalmente e involontariamente distorta, che uno? scrittore ha su di un altro scrittore nel corso del tempo; bensì, molto semplicemente, l’atto interpretativo che ognuno di noi compie mentre legge un testo. Abbagli e sviste comprese.
Animato dalle migliori intenzioni e armato a pallettoni dai criteri di giudizio correnti in Italia negli anni 20 – atteniamoci al testo e lasciamo perdere i riscontri biografici dei positivisti -, il giovane Pavese legge l’intera opera di Whitman con la matita rossa e blu fornitagli da Benedetto Croce, e distingue i momenti in cui rifulge la poesia – “l’intuizione pura”, appunto – da altri in cui prevale, come si diceva allora, il mestiere dell’artigiano.
Qualche mio collega esperto di Whitman e a sua volta immerso in un “brodo di coltura” (breeding ground) di tutt’altro genere, potrebbe obbiettare – e in verità lo ha già fatto – che quella di Pavese è una battuta di caccia con armi improprie. Arrivato alla fine del volume, non saprei dire se il suo intento fosse di dimostrare che in Leaves of Grass prevale la poesia sui momenti di non-poesia; ma, di sicuro e per quanto mi riguarda, Pavese riesce a portare a casa la pelle dell’orso.
All’epoca in cui scriveva questa tesi di laurea aveva solo 21 anni e aveva imparato l’inglese sui dizionari, come un autodidatta. Eppure, con straordinario acume critico – e una punta più che comprensibile di sventata saccenteria giovanile -, nel corso della sua disamina individua i fili che legano le numerose edizioni stratificate di Leaves of Grass. E, soprattutto, arriva a intravedere l’impulso che genera il turbine di parole profetiche con le quali Whitman si incarica di catturare la nuova realtà dell’America, et ultra.
Al pari di certi medici d’antan che, in forza del cosiddetto “occhio clinico”, azzeccavano le diagnosi pur senza troppi referti, Pavese è in grado di intuire ed enucleare “immediatamente” – parola che in gergo significa “senza la mediazione di dati a supporto” – quel che c’era dietro (e sopra e sotto) tanto le grandi quanto le meno grandi poesie di Whitman.
Cita Emerson una sola volta e per di più in una nota; e mai i trascendentalisti della Nuova Inghilterra, le cui posizioni filosofiche avevano trovato nella disposizione estetica di Whitman un riscontro di carattere vitale. Di più: Pavese, pur affermando di non dar credito a chi sosteneva che Whitman non avesse letto Emerson prima di conoscerlo di persona, non si accorge che Leaves of Grass altro non è che la messa in opera – la realizzazione – del progetto che lo stesso Emerson aveva delineato in The Poet (Essays, II, 1844).
E questo perché Pavese apparteneva a una generazione di studenti che, non disponendo di una biblioteca adeguata, non poteva sapere tutto quel che c’era da sapere sulla realtà americana. E non tanto sulla cronaca, i costumi, il cinema o il paesaggio, che in qualche modo arrivavano anche da noi attraverso i giornali e i film, quanto su di una cultura – la loro – fondata su principi di libertà difficilmente comprensibili in un Paese come il nostro che ha sempre e inevitabilmente concepito la libertà stessa come il risultato di un atto di liberazione.
Whitman era nipote e figlio di quaccheri, un ramo collaterale della rivoluzione puritana che sosteneva di poter prescindere sul piano spirituale dalle prescrizioni della Legge, ovverosia delle Scritture, per obbedire direttamente a una di Luce Interiore di ispirazione divina. Posizione teologica che in America, lontani dalla madre patria e ancor più dal magistero della Chiesa di Roma da cui tutti i protestanti si erano a suo tempo staccati, rendeva i quaccheri oltremodo sospetti. Capaci di qualsiasi comportamento, e per di più in “buona fede”: ovverosia, sinceramente – e senza calcoli di sorta – portati a testimoniare il proprio stato d’animo e la propria verità.
È ormai acclarato che l’uomo Whitman – poeta incline per educazione e temperamento a una quasi impudica (per i tempi) disinvoltura e trasparenza, e quindi pronto a inculcare nel lettore una impressione di autenticità travolgente -, mescolò mica male le carte circa il proprio rapporto iniziale con Emerson e soprattutto negli ultimi anni, quand’era ormai diventato il bardo d’America e il poeta più fotografato del suo tempo, di qua e di là dell’Oceano.
A questo proposito, ancora oggi ricordo il giorno – quasi mezzo secolo fa – in cui Hyatt H. Waggoner, un vecchio professore della Brown University, esperto di Emerson e dintorni, nel corso di un colloquio privato mi indirizzò a leggere la tesi di dottorato di un suo allievo, Alvin H. Rosenfeld, che pochi anni prima aveva chiarito una volta per tutte (Emerson and Whitman: Their Personal and Literary Relationship, 1967) quali fossero stati rapporti culturali tra i due.
Pavese non poteva per ragioni di forza maggiore inoltrarsi in questo territorio, ma, scrittore a sua volta, avvertì subito che la nuova poesia americana tale poteva essere (e Whitman sapere che poteva esserlo) proprio in grazia del fatto che aveva alle spalle una secolare tradizione sulla quale contare come su di un’intera scala di valori e modulazioni da cui derogare fingendo di prescindervi.
In questo senso la spontanea effusione della poesia di Whitman, ripetutamente paragonata nel corso di Leaves of Grass al gorgheggio degli uccelli – a un prodotto della natura e non dell’arte -, prende la forma di un novissimo testamento che ingloba il nuovo testamento della poesia inglese e il vecchio testamento della cultura occidentale a partire dai suoi primordi.
Insomma, nihil sub sole novum, come ebbe un giorno a dire l’Ecclesiaste, seppure non in latino. Il grande poema di Whitman è solo un ennesimo atto dell’immaginazione, capace di vedere e di far vedere – cioè, intuire o intueri = “vedere dentro” – ciò che non è né presente né, tantomeno, tangibile da chi legge.
Prova ne sia che pressoché tutte (in realtà, tutte) le poesie di Leaves of Grass che non abbiano a che fare con New York, ma con il resto del territorio – le praterie, i pionieri, il West e il Far West – Whitman le scrisse molti anni prima di recarsi in visita pastorale e benedire l’America tutta dal finestrino del treno.
Ed è la stessa America che Pavese non avrebbe mai visto.