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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

La ripresa Usa arriva con gli asset invisibili

Come le pandemie, le bolle speculative sono invisibili finché non esplodono: ma le peggiori sono quelle che conoscono già tutti. La bolla degli “asset intangibili” è diventata la prima della lista: di qui alla primavera 2021, gli analisti prevedono che per la prima volta nella storia, tutto ciò che rappresenta l’economia reale sparirà dalla catena del valore delle grandi aziende americane. Significa addio Corporate America: il 100% del valore finanziario della più grande economia del mondo sarà fatto di brevetti, algoritmi, software e ogni altra proprietà intellettuale dichiarata in bilancio (quasi mai) o comunque assimilabile al patrimonio di un’azienda. Il lato oscuro della digital economy non sono i Bitcoin, ma gli effetti della smaterializzazione del valore reale in chiave digitale: se l’economia non cresce con gli investimenti fissi, la borsa investe su quelli intangibili. La dinamica fuori controllo di questo fenomeno è sotto osservazione da tempo, ma nel caos della guerra al Covid la scomparsa delle fabbriche dal valore delle imprese ha raggiunto l’apice. 
Non solo per le dimensioni che ha assunto sul mercato delle imprese – gli asset intangibili valgono ora 65.700 miliardi dollari, nuovo record storico – ma soprattutto perché rappresentano più della metà del valore totale delle società quotate sui listini di borsa. Gli Stati Uniti sono ovviamente in testa alla classifica della ricchezza invisibile: 35 delle prime 50 imprese del mondo per valore degli asset intangibili, hanno il quartier generale in America. Se c’è più attenzione (e tensione) sulle azioni di Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook o Tesla che sui dati macroeconomici americani, un motivo c’è: l’hi tech rappresenta un terzo del valore totale della Corporate America, ma il 40% del valore totale dei loro beni materiali. In particolare, circa 10mila società quotate in borsa nel mondo avevano l’anno scorso una capitalizzazione di mercato di oltre 200 milioni di dollari e ricavi di almeno 100 milioni. Insieme, totalizzavano 40 trilioni di ricavi e 74 trilioni di dollari di valore aziendale. Solo il 30% era rappresentato dalle attività materiali nei loro bilanci: il 70% era invisibile. 
La pandemia, insomma, ha frenato ogni locomotiva dell’economia industriale, ma ha liberato gli spiriti selvaggi di quella digitale: con prevalenza dei soggetti peggiori. Nell’era industriale, gli investitori scommettevano sulle società che scambiavano in borsa per meno del loro valore contabile (le attività in bilancio meno debiti e altre passività): oggi è il contrario, perché la maggior parte del valore proviene da beni che in genere neanche compaiono nel valore di libro. Nessun obbligo di disclosure sull’unico asset apprezzato dagli investitori. In base ai principi contabili IAS, non vengono riconosciuti fino a quando il loro valore reale viene fissato in una transazione: di conseguenza, molti beni immateriali di grande valore non compaiono mai nei rapporti finanziari. La conferma è in uno studio della società di analisi Brand Finance: a fine 2019, il 34% del patrimonio totale delle società quotate a Wall Street era costituito da valore non divulgato. 
Ma l’aspetto più controverso di questo trend, è il ruolo assunto dal governo americano: invece di tirare il freno al rischio implicito della scomparsa di asset reali dal valore d’impresa, lo ha cavalcato ad arte per fare cassa sulla febbre speculativa. Non è da tutti riuscire a contabilizzare da un mese all’altro – e senza troppa pubblicità- un balzo del 3% del Pil, senza nuovo debito e senza un dollaro dei contribuenti: in cifre, si tratta di un’iniezione una tantum di 500 miliardi dollari di valore “intangibile” inespresso di brevetti, marchi e algoritmi, nel perimetro della più grande economia mondiale. In pratica, ha inserito nel Pil una nuvola di valore non sua. 
Poco prima della pandemia, mentre l’Europa litigava sulle banche e sul fondo salva-stati, Washington ha dato a tutti una lezione di crescita accelerata. In base ai principi contabili IAS, gli “intangibles” non vengono riconosciuti fino a quando il loro valore reale viene fissato in una transazione: di conseguenza, molti beni immateriali di grande importanza non compaiono mai nei rapporti finanziari, ma il loro valore presunto è ugualmente integrato nella valore d’impresa. In questa giungla contabile, ecco che cosa ha fatto la Casa Bianca. La ricerca e lo sviluppo erano contabilizzate nel Pil degli Stati Uniti come un costo d’impresa: il valore della produzione degli iPad della Apple, per esempio, era incluso nel calcolo della crescita economica nazionale, ma la ricerca fatta per crearli non lo era. Già per il 2020 e per gli anni a venire, la ricerca e lo sviluppo conteranno ai fini della crescita economica come un investimento reale, aggiungendo poco meno del 3 per cento alla dimensione dell’economia americana. Che cosa costituirà esattamente la crescita del PIL in futuro? In una parola, gli asset intangibili: film, libri, riviste e le canzoni di iTunes. Chi teme i Bitcoin, non ha ancora visto la “foresta” che si profila all’orizzonte. 
Un dimostrazione ancora più palese delle distorsioni provocate dalla confusione sulle maglie larghe della contabilità, riguarda addirittura l’Arabia Saudita: l’emirato del Golfo è entrato nelle classifiche internazionali dei mercati dei capitali come una «piazza finanziaria ad alto tasso di economia intangibile». Questo permette alla Borsa saudita di entrare nei flussi di capitale dei fondi specializzati. Ma come è possibile? Il fatto che il più ricco pozzo petrolifero del mondo, simbolo della risorsa energetica più distante dal significato di “economia immateriale”, diventi improvvisamente “verde” fa quasi ridere. Eppure, in base alle logiche distorte dei mercati, l’Arabia Saudita ha conquistato il posto grazie all’Ipo di Saudi Aramco, il colosso petrolifero nazionale appena quotato in Borsa raggiungendo un valore di mercato di 1.700 miliardi di dollari. Il petrolio delle riserve sotterranee saudite è di proprietà dell’emirato. Saudi Aramco ha però la concessione esclusiva sulla monetizzazione delle riserve. Risultato: il valore di 1,7 trilioni di dollari si riferisce al solo controllo della licenza da parte della compagnia, alle sue relazioni privilegiare con l’emiro, ma non ai suoi asset materiali e agli impianti di estrazione. Così, se prima del debutto in Borsa, all’Emirato era riconosciuta una quota di beni intangibili nell’economia pari 39% del totale del Pil: quest’anno, il tasso di smaterializzazione del valore saudita è salito al 90%, un clamoroso record storico per l’asse portante del mercato del greggio. Inutile dire che il rimbalzo è stato ampiamente celebrato dagli emiri. 
Non è un caso, insomma, se in questa fase di “rischi invisibili”, siano stati proprio i colossi di Wall Street con i bilanci più “intangibili” (e con più debito) a trainare anche il rally degli indici di Borsa: Microsoft, Amazon, Apple, Alphabet, Facebook e Alibaba, solo per citare i più noti. Il fascino dell’asset-light potrebbe spiegare molto anche del valore straordinario assegnato dagli investitori alla Tesla.
Gran parte del valore della casa automobilistica di Elon Musk è nel suo software di guida autonoma, che costa molto da sviluppare ma molto poco da installare, producendo così margini elevati. In un recente rapporto, Morgan Stanley sostiene che il pacchetto completo di guida autonoma di Tesla (ora un’optional da 8.000 dollari) potrebbe rappresentare il 6% delle vendite e quasi il 25% dell’utile lordo entro il 2025. Musk non guadagna sulle auto, ma su algoritmi e software. 
«La tecnologia ha facilitato la creazione di nuovi modelli di business per decenni» dice Jason Thomas, capo economista del gestore di private equity Carlyle Group, citando esempi come le compagnie di taxi che non possiedono taxi o impiegano autisti, le società alberghiere che non possiedono hotel e i gruppi dei media che raggiungono il proprio pubblico attraverso Internet anziché licenze di trasmissione, teatri e cavo. «L’emergere e la crescita delle imprese virtuali – spiega Thomas – ha fornito prove evidenti che, nell’era digitale, il valore accumula idee, ricerca e sviluppo, marchi, contenuti, dati e capitale umano, vale a dire beni immateriali, piuttosto che macchinari industriali, fabbriche o altri beni fisici».
Come arginare questo tsunami digitale contro i beni reali è ancora un rebus, visto il radicamento della cultura dilagante: anche dopo le grandi riforme finanziarie post-crisi del 2008, un certo grado di opacità contabile fa sempre parte delle regole del gioco. Ma nonostante la profonda resistenza a una più ampia divulgazione finanziaria, la nebbia che oscura gli asset intangibili sta iniziando a sollevarsi: le pressioni dei regolatori, degli investitori e degli esperti di contabilità è persino aumentata con la guerra alla pandemia. Nessuno chiede alle aziende di rivelare i loro segreti industriali, ma solo di fare chiarezza sul valore reale di un brevetto, quanto può realisticamente valere un marchio e quale reddito può aspettarsi di generare in ricerca e sviluppo, anche quando queste cifre non possono essere determinate con una certezza assoluta. Non trattare i beni immateriali come una risorsa reale poteva avere senso quando l’economia era dominata dalla produzione e dall’agricoltura. Ma il valore contabile senza intangibili è sempre più irrilevante in un’economia basata sull’informazione. 
Questa sorta di bipolarismo contabile è entrata anche sotto esame della Sec: «La proprietà intellettuale, i soft asset e altri intangibili costituiscono sempre più il grosso della base di attività per la produzione di ricchezza nella nostra società – ha detto il commissario Steven Wallman in un simposio sugli asset intangibili – Per questo dobbiamo imparare a misurare e contabilizzare meglio queste risorse per rifletterle nelle rendicontazioni societtarie». 
Quello vero, si chiama recupero dei crediti: Se il 90% del valore patrimoniale dei gruppi quotati non è “materiale”, che cosa succede se una crisi finanziaria sistemica o una grande recessione (nello stile pandemia) travolge all’improvviso il mercato, e sopratto il bilancio di un’azienda?
Le azioni vanno in fumo, le obbligazioni le seguono: ma i fornitori e i creditori “reali” chi li paga? L’asta fallimentare dei beni invisibili? Il problema non è così banale come sembra. 
Tra i “nuovi” fenomeni finanziari passati sotto silenzio nell’era dei Quantitative Easing, quello più inquietante degli ultimi 10 anni è proprio quello delle imprese in “bilico” tra la vita e la morte: un esercito con oltre 5.500 «imprese-Zombi» che vagano nelle Borse e sui mercati dei capitali raccogliendo denaro a basso costo per pagare stipendi e interessi sul debito. Sono tante, sono pericolosamente instabili sul piano finanziario, e si confondono tra le aziende sane in ogni piazza nazionale o internazionale: per loro, finchè c’è debito c’è speranza. 
Una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, la più autorevole e antica istituzione finanziaria del mondo, ha rivelato che in dieci anni, tra il 2008 e il 2018, il numero di aziende «fallite ma non morte» è più che raddoppiato, arrivando alla quota record di oltre 5.500 Zombi. Gli analisti della BRI trattano il fenomeno come se fosse una sorta di pandemia dilagante: il contagio interessa il 12% delle 46mila imprese che hanno azioni scambiate sui listini. In America, il rapporto Zombi/aziende sane è persino più squilibrato della media mondiale: la BRI stima quasi 700 imprese apparentemente sane ma con i bilanci in stato vegetativo. In pratica, il 16% delle 4.336 aziende quotate in America rientra oggi nella categoria del “terrore”. 
Se le regole e i requisiti patrimoniali e contabili imposti alle banche, fossero oggi estesi a Facebook, Microsoft, Amazon o Google, ci penserebbero gli aumenti di capitale a sgonfiare la bolla finanziaria dei titoli Hi-tech.