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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

L’auto elettrica sarà come gli smartphone 20 anni fa

Un mega-stabilimento in una sperduta cittadina alle porte della Lapponia svedese sotto la guida di un ingegnere torinese. La rivoluzione europea dell’auto elettrica sta nascendo qui, tra foreste di conifere e fiumi ricchi di salmoni selvaggi, a tre ore di macchina dal Circolo Polare Artico.

Quello tra Skellefteå e Paolo Cerruti è davvero uno strano connubio. La prima è una placida località di 35mila anime adagiata sul Golfo di Botnia, 800 chilometri a nord di Stoccolma. In un’area di 20 ettari circondata più da abeti che da esseri umani sta sorgendo quella che potrebbe diventare la più grande gigafactory europea, capace di sfornare a ciclo continuo batterie a ioni di litio di ultima generazione, cioè il cuore dell’auto elettrica, la sua componente più costosa. Ruspe e gru sono all’opera da mesi per terminare uno stabilimento di 500mila metri quadri che a regime impiegherà ben 2.500 persone. Una vera e propria scarica di adrenalina per questo remoto angolo d’Europa. Paolo Cerruti, 50 anni, è il Chief operating officer di Northvolt, l’azienda svedese fondata nel 2016 insieme a Peter Carlsson che in 4 anni ha già investito 4 miliardi ed è il vanto di Bruxelles come modello di azienda sostenibile nell’era del Green deal. I due manager sono passati da Palo Alto, California, dove erano vicepresidenti di Tesla alla corte di Elon Musk, a Skellefteå, senza biglietto di ritorno. Un bel salto, non c’è che dire.
«In realtà io vivo a Stoccolma, dove ha sede il quartier generale di Northvolt – racconta via Teams al Sole 24 Ore l’ingegnere piemontese – ma una volta alla settimana volo a Skellefteå per seguire i lavori. Una location bizzarra? Ha tutto quello che ci serve: energia 100% rinnovabile a bassissimo costo, vicinanza a centri di lavorazione di metalli e materie prime, infrastrutture. Stiamo già fornendo le prime celle ai clienti. La produzione di massa partirà a fine 2021».
L’avventura di Northvolt è di quelle da manuale dell’imprenditoria. Un melting pot di ingegneri, chimici e manager provenienti da una settantina di Paesi uniti per creare un’azienda delle batterie capace di sottrarre l’Europa al monopolio dei giganti asiatici. 
Ci sono grandi aspettative intorno alla pioniera di Stoccolma. Nel 2019 Volkswagen e Goldman Sachs hanno guidato un’iniezione di capitale da un miliardo che prevede l’ingresso della casa tedesca come azionista con una quota vicina al 20% e la costruzione di una seconda gigafactory in Germania. Tra gli altri investitori figurano Bmw, il fondatore di Spotify Daniel Ek, la Banca europea degli investimenti. Tante risorse, tanta pressione. Non temete di deludere? «Investire – risponde secco Cerruti – è un atto di fiducia. Si possono fare tutte le due diligence del mondo, ma alla fine la domanda è: “Ci fidiamo?”».
Ci vuole tanta fiducia per costruire una filiera europea delle batterie al litio capace di competere con i big asiatici, padroni incontrastati del mercato. Northvolt non ha ancora dimostrato di poterlo fare, per ora ha soltanto raccolto ingenti capitali e siglato accordi di partnership. «Che cosa ci manca in Europa? L’esperienza. Produrre batterie è complicato, soprattutto se si parte da zero. Gli asiatici hanno l’abitudine a lavorare su grandi volumi, in Europa siamo pieni di hub accademici, ma quando si tratta di produrre su larga scala siamo molto indietro».
Cerruti si intende di volumi, avendo lavorato per 15 anni nell’automotive tradizionale con Renault-Nissan, ed è quindi la persona giusta per mettere a confronto la vecchia industria dell’auto con quella che sta nascendo. «Ci sarà una grande selezione darwiniana. Da una parte abbiamo un ecosistema, quello del motore termico, affamato di volumi, ma che non cresce più e se non cambia è destinato all’estinzione. Dall’altra il mondo dell’elettrificazione, molto innovativo ma immaturo e con volumi bassi. Farlo crescere è una sfida enorme, simile a quella che affrontò a fine anni Novanta l’elettronica di consumo prima dell’esplosione degli smartphone. Il livello tecnologico è paragonabile, decisiva sarà la capacità di avere una supply chain integrata verticalmente».
Il passaggio da un mondo all’altro per Cerruti è arrivato in un weekend. «Era il 2012, lavoravo a Parigi a Renault-Nissan, la mia carriera era in una fase di grande comfort, avevo un bel team. Mi contattano da Tesla, vado in California per un colloquio, ne parlo con mia moglie e in un weekend decido di trasferirmi». A Tesla è stato 4 anni, di cui gli ultimi due come vicepresidente della global supply chain fianco a fianco con Peter Carlsson con cui poi ha fondato Northvolt. Gli anni in cui Tesla cominciava a far parlare di sé.
«Quando ho lasciato Tesla ero sicuro che avrebbe superato i suoi stessi obiettivi, ma solo con una massiccia diluizione del capitale. Mi sbagliavo. Stavamo bruciando denaro a una velocità pazzesca. Elon è stato davvero abile a difendere la struttura azionaria. Ha un’incredibile capacità di gestire l’azienda come un’imbarcazione leggera malgrado abbia raggiunto una certa stazza. La sua più grande qualità – lui ha il mio numero di telefono, io il suo, non ci sentiamo da un po’ di tempo ma sa cosa stiamo facendo – è quella di costringerti a spingere sempre più in là i confini di ciò che credi possibile. Fa un passo indietro solo quando lo metti di fronte alle leggi della fisica e gli spieghi che qualcosa è impossibile sulla base di quelle leggi. Tesla riuscirà a mantenere il vantaggio competitivo sul software, su cui è imbattibile. Il punto debole? La qualità percepita, le finiture, gli accostamenti, su questo a volte è un po’ sloppy (sciatta) e ha molto da imparare dalle case tedesche».
Cerruti è torinese, ma non ha mai lavorato in Italia. «La nazionalità dell’azienda per me non era importante. Dopo la laurea in ingegneria aerospaziale al Politecnico di Torino ho fatto la tesi di dottorato al Centro ricerche Fiat dove mi hanno offerto un lavoro. Ero giovane, volevo più “brividi”, puntavo a imparare bene l’inglese, così sono andato a Londra. La prima esperienza di startup (un sito di offerte di lavoro online nel 1995) è stato un flop. A quel punto ho capito che avevo bisogno di un’azienda strutturata e ho iniziato a Renault, dove sono stato 15 anni seguendo le nozze con Nissan e lavorando a Tokyo, in India e a Parigi».
L’Italia è assente dal suo curriculum ma finora è anche poco presente, con qualche eccezione, nella filiera industriale dell’auto elettrica. «Non è troppo tardi, l’Europa avrà un tale fabbisogno di batterie che c’è spazio per tutti. A Northvolt non escludiamo di investire nel Sud Europa in futuro, ma l’Italia ha due handicap pesanti: uno dei costi dell’energia elettrica più alti al mondo, fatti in buona parte di tasse, che per un’industria energy-intensive come la nostra è un ostacolo formidabile; una certa instabilità politica e i tempi incerti della Pubblica amministrazione. Prima di investire 4 miliardi, come abbiamo fatto noi, questi sono fattori cruciali da considerare. Peccato, perché l’Italia ha una grande tradizione nell’automazione e molte aziende potrebbero convertirsi alla filiera dell’elettrico». 
Eppure, in Italia e non solo, diversi esperti del settore ritengono sbagliata la scelta di puntare sull’elettrico e difendono il motore diesel, che rispetto a 10 o 20 anni è molto meno inquinante. «Non mi piacciono i punti di vista polarizzanti, non è “diesel contro elettrico”. Il diesel ha fatto grandi progressi e in certi casi – penso ai veicoli commerciali a lungo raggio o a certe applicazioni industriali – rimarrà ancora. Per il trasporto personale invece non credo abbia un futuro: l’elettrico è una via di non ritorno e la sua adozione è solo una questione di tempo legata alla psicologia del consumatore e all’ampliamento dell’offerta. Certe ansie da batteria scarica sono immotivate: oggi il 95% degli spostamenti in auto avviene in un raggio di 50 chilometri. E gli ultimi modelli elettrici ti consentono di trascorrere il weekend in montagna o al mare in tutta tranquillità. Ma per vincere le paure dei consumatori le infrastrutture di ricarica devono crescere di pari passo con il mercato».
L’industria europea dell’auto, “costretta” dalle normative Ue, si sta muovendo rapidamente verso la produzione di veicoli elettrici. Resta una domanda di fondo: siamo sicuri che i consumatori le vogliano comprare? «Nessuno voleva le auto elettriche nel 2010 perché erano brutte, noiose e con un’autonomia limitata. Le vetture sportive dovevano avere motori roboanti per piacere. Tesla ha dimostrato che si può vendere un’elettrica attraente, performante e dotata di gioielli come lo schermo da 17 pollici sulla Model S. Se offri ai consumatori un prodotto sexy, tecnologicamente avanzato, divertente da guidare e con un’ampia autonomia, lo compreranno».
Difficile pensare alla Tesla come un prodotto per la classe media. Come risponde a chi sostiene che l’auto elettrica sia un vezzo per consumatori urbani facoltosi? «All’inizio produrre auto di gamma alta era l’unico modo per sopravvivere. Tesla ha progettato Roadster e Model S per necessità. Con il tempo è riuscita a creare economie di scala e allora è scesa di gamma con la Model 3. Si può democratizzare l’auto elettrica, servono politiche di sostegno ed economie di scala. È un circolo virtuoso: la strada è giusta, non si torna indietro. Che auto possiedo io? Nessuna, è uno dei lussi della vita a Stoccolma».