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 2020  dicembre 13 Domenica calendario

Il Green Dea europeo ci costa troppo

La Commissione Von der Leyen, forte del mandato politico delle elezioni del maggio 2019, ha messo al primo posto della sua strategia il Patto Verde, il Green Deal. E si sapeva fin dall’inizio che avrebbe alzato l’asticella, in linea con quanto vuole il Parlamento. L’obiettivo precedente, concordato nel 2018, di taglio alle emissioni di Co2 del 40% entro il 2030 rispetto al 1990,l’ha portato ad almeno 55%. Nel 2019, prima del Covid, eravamo a una riduzione del 23%, il che c’ha permesso di superare l’obiettivo, questo stabilito nel 2008, di almeno 20% nel 2020. Abbiamo ridotto di un miliardo le emissioni a 3,7 miliardi tonnellate all’anno, sforzo, però, ampiamente vanificato dalla crescita di 13 miliardi del resto del mondo, soprattutto della Cina e del resto dell’Asia, a cui abbiamo demandato il compito di produrre gran parte dei manufatti che usiamo. È un risultato positivo, ma c’abbiamo messo 30 anni, con spazi enormi all’inizio, come la possibilità di chiudere il sistema industriale dell’Est Europa ereditato dal comunismo. Di aiuto è stato anche l’incremento di tre volte delle fonti rinnovabili, il solare, l’eolico e soprattutto le biomasse, ma il loro contributo complessivo è ancora limitato al 19% dei consumi finali. Sole e vento, le fonti rinnovabili nuove che dovrebbero condurci al futuro decarbonizzato, rappresentano solo il 4% del totale dei consumi energetici. È impietoso, ma occorre ricordare che questo 4% ci è costato uno sproposito in termini di incentivi, o di sussidi ambientali favorevoli, come molti usano chiamarli oggi. Germania e Italia, i Paesi più generosi, hanno speso negli ultimi 10 anni rispettivamente 24 e 12 miliardi di euro ogni anno, con altri membri Ue, molto distanziati, che hanno aiutato a portare il totale oltre i 56 miliardi di euro annuali. Le regole della politica industriale impongono che gli incentivi sviluppino filiere nazionali, ma oggi, dopo gli entusiasmi di 10 anni fa, di stabilimenti europei del fotovoltaico e dell’eolico ne esistono pochi, sparuti. Invece, il 75% dell’industria mondiale è concentrata in Cina, dove i pannelli e le pale vengono prodotte usando molta elettricità che si fa con il carbone, ragione fondamentale per cui i costi di queste tecnologie sono crollati. Le bioenergie, e in particolare le biomasse, sono le fonti rinnovabili che sono cresciute di più, ma sono un esempio della complessità delle politiche, perché causano l’inquinamento da particolato nelle aree urbane europee, con la Pianura padana al primo posto. È un’emergenza ambientale più urgente del cambiamento climatico, ma meno suggestiva e pertanto un po’ dimenticata, salvo poi quando arriva la sentenza di condanna all’Italia della Corte di giustizia Ue del 10 novembre scorso. Tuttavia, la ragione del calo delle emissioni su cui occorre riflettere di più,  è il ritmo di crescita modesto del Pil della Ue. Ciò è causato  dalla progressiva deindustrializzazione, a cui contribuisce la rivoluzione verde, che spinge sui costi dell’energia e origina disoccupazione, soprattutto fra i giovani nelle aree depresse, come il Meridione d’Italia. Il Pil dell’Unione Europea, dal 1990 al 2019, è salito in media dell’1,7% all’anno, contro il 2,5% degli Usa, il 9% della Cina e lo 0,8% dell’Italia. La quota sul Pil mondiale della Ue è scesa dal 24 al 15%, quella dell’Italia dal 4 al 2%. Nei prossimi 10 anni, al 2030, dovremmo più che raddoppiare quanto fatto in 30 anni, senza dare sussidi alle rinnovabili, con spazi di efficientamento nell’Est europeo molto più stretti e con l’ambizione di mantenere una crescita sostenuta, mentre proliferano ovunque i comitati controle pale e i pannelli. L’Unione Europea conta per il 9% delle emissioni globali, ma lo sforzo che sta facendo è  da prima della classe e che ne valga la pena occorrerebbe chiederlo ai tanti giovani disoccupati d’Europa.