Corriere della Sera, 13 dicembre 2020
Il Rousseau di Starobinski
«Rileggere l’opera di Jean Starobinski oggi è come ritrovare una carta d’Europa, ove una mano abile di pittore abbia sostituito, ai corrugamenti delle frontiere, il frondoso labirinto delle sue vene». Così scrive Carlo Ossola a proposito dello studioso ginevrino, critico letterario, storico delle idee, medico psichiatra morto l’anno scorso quasi centenario. Uno dei grandi intellettuali di cultura leonardesca del Novecento europeo. C’è una breve autobiografia di Starobinski, aggiunge Ossola, in cui «scorre la sapienza di un secolo». Perché questa sapienza venga alla luce, è indispensabile guardare ai modelli passati: e lo studioso non ha risparmiato scavi su Corneille, Montaigne, Racine, Montesquieu, Stendhal, Baudelaire, Freud, Kafka, Valéry, ma anche sulla musica, sulla pittura, sulle religioni, sul pensiero politico, sul pensiero scientifico, oltre che sulla letteratura e sulla filosofia. In questo panorama spicca la figura di Jean-Jacques Rousseau. Perché Rousseau? «D’istinto, egli aveva messo in opera una formula precipua dei convertitori: accusare e sedurre, designare il male e annunciare il rimedio». Sono ragioni che segnano la lunga fedeltà del lettore Starobinski all’autore dell’Émile e del Contratto sociale.
È vero che Starobinski si è dedicato a Rousseau per una vita: l’ha scelto come oggetto della sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1957 con il titolo La trasparenza e l’ostacolo, per poi riavvicinarlo e riconsiderarlo con saggi successivi soltanto in parte confluiti nel 2012 nel volume Accuser et séduire, ora tradotto da Christine Fornera Wuthier per la casa editrice Armando Dadò di Locarno, in Svizzera (Accusare e sedurre, con la prefazione di Carlo Ossola). Dunque, una lunga storia che va inserita nel contesto della cosiddetta Scuola di Ginevra (con maestri quali Georges Poulet e Marcel Raymond) e che ha nel mezzo tappe fondamentali, tra cui la serie di indagini de Il rimedio nel male (1989). E un’indimenticabile lezione del 1993 su Rousseau e Torquato Tasso pronunciata al Centro Studi storico-letterari Natalino Sapegno (pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1994): sepolta tra le carte rousseauiane custodite a Neuchâtel, Starobinski trovò una traduzione manoscritta del primo canto della Gerusalemme liberata, che gli offrì lo spunto per mettere in luce alcune inclinazioni di Rousseau, a partire dell’ammirazione per l’eloquenza, dalla congiunzione tra amore e follia, dalla tendenza a identificarsi nelle avventure degli eroi amati, dalla passione per la musica come mondo fantastico e «rifugio inespugnabile».
Colpisce subito, leggendo questi scritti, quanto Starobinski sia attratto dal «caso clinico» e dalla sua esperienza emotiva almeno quanto sia interessato al pensatore, considerando inscindibili i due aspetti, e anzi leggendo la produzione autobiografica non tanto per ricavarne gli eventuali nodi filosofici, ma per metterne in luce le strutture profonde e la formazione di una personalità e di un’identità. Tant’è vero che lo studioso pone in particolare rilievo le riflessioni sulla «malattia inscritta sin dall’origine» e confessata in una dolente nota autobiografica: «Nacqui debole e malaticcio; costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la prima delle mie sventure». E anzi non sarà eccessivo affermare che in genere gli scritti autobiografici di Rousseau mettono in luce la radice privata, personale, quotidiana anche delle opere civili, come il Contratto sociale o il Discorso sull’ineguaglianza: e soprattutto danno il destro a Starobinski per esaminare sotto questa luce l’intero sistema Rousseau, che tratti di musica, di politica, di società umana, di giustizia, di felicità, di civilizzazione o di botanica.
Tutto parte dalla ferita originaria e dal male provocato sin dalla venuta al mondo, ed è da lì che prendono avvio, secondo Starobinski, le «energie riparatrici», le «facoltà di compensazione» che Rousseau riesce a mettere in moto: l’immagine spesso evocata è quella della lancia di Achille, l’arma che ha ferito Telefo ma che, secondo la volontà dell’oracolo, diventa l’unica medicina capace di guarirlo al solo contatto. Una sorta di cura omeopatica, postilla Starobinski. Interessante immagine che potrebbe tornare utile all’interpretazione del nostro momento attuale.
Nel progetto di Rousseau, il suo lettore deve rimanere stupito dalla tragedia iniziale denunciata dall’autore ma anche dalla sua capacità di riprendersi gloriosamente a dispetto del male: la malattia innata, insomma, si associa alla sua terapia in una straordinaria congiunzione di opposti. Che Rousseau incarni la convivenza dei contrari lo dicono i titoli stessi delle opere che gli dedica Starobinski: non solo Il rimedio nel male ma ancor prima La trasparenza e l’ostacolo e infine questo Accusare e sedurre. Se ne ricava il ritratto di un uomo e di un intellettuale mai pacificato con sé stesso e con il mondo, in perenne conflitto con i suoi contemporanei, assediato da fantasmi, incubi, fantasie, miraggi: «La mia sciagurata testa non può adattarsi alle cose, non le basta abbellire, vuol creare».
L’ispirazione letteraria di Rousseau diventa per Starobinski «un’entrata in guerra», animata da «una natura antagonistica, da un pensiero accusatorio», da un risentimento vendicativo: è l’«indignazione della virtù» sull’andamento del mondo avvertita come una sorta di apostolato almeno finché dura la vita in città, il cui spettacolo dei vizi alimenta l’afflato polemico e censorio dello scrittore.
È noto che il momento chiave della «conversione» creativa coincide con il viaggio del 1749 verso Vincennes, dove Jean-Jacques intendeva far visita all’amico Diderot, finito in carcere per lo scandalo sollevato delle sue opere. Fu in quella circostanza che, leggendo il programma dell’Accademia di Digione, diventò «un altro uomo»: gli balenò in un attimo l’idea di partecipare al concorso proposto dagli accademici sul contributo del progresso delle scienze e delle arti nei costumi dell’epoca, un’illuminazione che l’anno dopo gli farà conseguire il premio con il suo Discorso. La sua vita sarà sconvolta dall’impatto di quel libro dirompente che gli farà guadagnare, con la fama popolare, l’aggressiva ostilità di tanti detrattori.
La paranoia persecutoria che lo abita accelera quel circolo vizioso (o virtuoso) tra accusa e seduzione: all’accusa contro la decadenza dei costumi, contro la corruzione della società, contro le diseguaglianze si accompagna il tentativo di persuadere i contemporanei della sua dirittura morale, della sua purezza, del suo amore incondizionato per la verità, della sua innocenza (in opposizione alle colpe degli altri). Rousseau, osserva Starobinski, «si sentiva responsabile dell’immagine che offriva, e dalla quale la curiosità di tutto un pubblico era catturata»: da qui lo sforzo di proporsi al mondo, ben prima di Emmanuel Carrère, con un’autofiction che lo sottraesse alle accuse dei nemici (veri e immaginari), alle colpe (quelle immaginarie e quelle vere: i figli abbandonati) che gli venivano rimproverate.
Ancora una volta gli opposti finiscono per coincidere anche nell’autofiction: rilanciare le accuse contro la società corrotta parigina significava restituire un’immagine di sé, a beneficio delle lettrici e dei lettori più fedeli e ammirati, quale profeta in esilio, abbandonato, deriso e incompreso. Quest’«entrata in guerra» ha passaggi progressivi, che si intravede nel romanzo epistolare La nouvelle Héloïse e si perfeziona con i Dialoghi. E in definitiva aveva ragione Diderot, che durante la visita di Vincennes predisse al suo amico: «Farete la scelta che nessuno farà».
La scelta è quella del combattimento feroce e tragico con ogni mezzo. Fu allora che Jean-Jacques divenne un «barile di polvere da sparo». Un oggetto interessante, multiforme ed esplosivo, che nessuno meglio di Starobinski sa trattare con i guanti di velluto della curiosità e dell’intelligenza critica.