Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 13 Domenica calendario

Biografia di Fabrizio Gifuni raccontata da lui stesso

Si può dire che Fabrizio Gifuni ha iniziato a fare l’attore quando si divertiva con gli scherzi al telefono alla nonna?
«Forse quegli scherzi – risponde – mi hanno fatto capire che inventarsi un gioco ed essere presi sul serio poteva essere una gran bella cosa». 
Di che tipo di scherzo si trattava? 
«Avevo una decina d’anni, mia nonna più di 70: lei era molto affezionata a un mio zio ottantenne. Un giorno la chiamai al telefono, imitando la voce dello zio che ero in grado di riprodurre in maniera abbastanza impressionante, convinto che dopo pochi secondi avrebbe riconosciuto la mia voce. Invece no. Iniziò fra noi una lunga conversazione. Tanti ricordi in cui lei si commuoveva. Chiusi la telefonata molto turbato e senza il coraggio di dirle che ero io. La sera raccontai la cosa ai miei genitori». 
Si arrabbiarono? La sgridarono? 
«No, affatto. Siccome mia nonna passava molto tempo da sola, mi invitarono a chiamarla ogni tanto per tenerle compagnia. E così facevo. La chiamavo e lei dialogava con la mia voce da ottantenne. Questa sensazione da qualche parte deve essersi depositata: l’idea che l’apparente mostruosità di diventare qualcun altro poteva generare emozioni: mia nonna mi credeva, si emozionava e alla fine era felice. È ciò di cui parla Shakespeare a proposito degli attori: mettere in piedi un gioco per essere presi sul serio». 
Un lavoro, però, al quale lei è approdato dopo gli studi di Giurisprudenza. 
«Il teatro l’ho scoperto molto prima. Al liceo fondammo un laboratorio teatrale. Primo spettacolo Romeo e Giulietta. Avevo meno di 15 anni e ho pensato: “questa è la cosa più vicina alla felicità che abbia mai provato”. Terminata la scuola ho fatto passare un po’ di anni. Temevo che mi dicessero: vabbè, l’attore, ma un lavoro vero…? Ho iniziato a proteggere segretamente quella passione, mi sono iscritto a Giurisprudenza e sono partito per il militare. Ma ogni anno mi rileggevo il bando per l’Accademia Silvio D’Amico». 
Dove si è poi diplomato... 
«Sì, nei primi anni 90. Intanto ero arrivato a pochi esami dalla laurea. Poi ho abbandonato perché avevo iniziato a lavorare. L’ultimo esame è stato Procedura penale, il giorno prima di partire per Verona per iniziare le prove di un Macbeth con Franco Branciaroli. È stata l’ultima volta che mi hanno visto all’università». 
Insomma, la mancata laurea appesa al chiodo, archiviata. 
«È arrivata inaspettata, per altre vie, molti anni dopo, quando l’università di Tor Vergata mi ha dato una laurea honoris causa in Letteratura italiana, filologia moderna e linguistica, per il lavoro fatto negli ultimi vent’anni su testi letterari e nuove forme di drammaturgia teatrale». 
Lei è figlio di Gaetano Gifuni, un importante uomo delle istituzioni. Si è mai sentito privilegiato o facilitato dalle conoscenze di suo padre? 
«No mai. Mio padre era un grandissimo affabulatore, faceva molto ridere ma oggettivamente negli anni in cui mi stavo formando è stata anche una presenza ingombrante. L’ho anche parecchio vessato ma dovevo proteggermi». 
In che modo? 
«Gli ho impedito per anni di venire alle prime dei miei spettacoli o dei miei film e lui ci rimaneva sempre malissimo. Ora che non c’è più mi piacerebbe molto fargli vedere il mio ultimo film». 
Quali sono state invece le figure fondamentali nella sua crescita artistica? 
«Massimo Castri e Theo Terzopoulos nei primi anni, poi Giuseppe Bertolucci. In Accademia l’incontro centrale è stato con Orazio Costa, un gigante assoluto, del livello di Copeau, Jouvet o Stanislavsky. Ci ha insegnato le infinite possibilità del corpo, lo scatenamento del gioco e dell’infanzia. Difficilmente riuscivamo a capire cosa pensasse di noi come singoli e questo generava ferite salutari al nostro narcisismo. A parte una cosa...». 
Ovvero? 
«Avevamo capito che Costa prediligeva gli attori brevilinei, che sono più agili sul palcoscenico... come nello sport, ha presente Maradona?, è una questione di baricentro. Una volta sono andato da lui e gli ho chiesto: “mi dica la verità, dottore: sono troppo alto, vero?”». 
Che rispose? 
«Mi guardò un attimo e poi mi disse: “no… quando sei bravo, no. Ma devi essere molto bravo…”». 
L’attore con cui avrebbe voluto recitare, ma non ne è capitata l’occasione? 
«Adoravo Giorgio Gaber, andavo tutte le sere alla fine dei suoi spettacoli a rivedere i suoi bis. Mi affascinava moltissimo Carmelo Bene ma non so se avrei voluto recitare con lui, mi spaventava. Quando Sonia, mia moglie, ha recitato nel suo ultimo Pinocchio, una sera la sua compagna di allora mi scaraventò dentro al suo camerino. Carmelo si stava struccando e ha trapassato lo specchio, puntando gli occhi su di me senza girarsi. Ho immaginato che in quel momento stesse pensando: o lo distruggo o lo accolgo». 
E il risultato? 
«Dieci minuti che mi parvero dieci ore. Mi diceva: “Tu fai anche cinema? Allora fatti pagare molto, a teatro si devono fare solo cose straordinarie altrimenti meglio non farlo”. L’idea che mi è rimasta di lui, oltre al genio, è quella di un antico gentiluomo del Sud. Io sono un uomo del profondo Sud, metà pugliese e metà siciliano, mi sembrava di riconoscere dei codici antichi. Una volta nella sua casa araba di Otranto, finito di cenare, ha detto: “Scusate adesso vorrei vedere un po’ di Jugoslavia-Croazia”. Mi sono ritrovato in una scena straniante. Nella sua camera da letto davanti a un televisore enorme, a commentare la partita. Parlava quasi solo lui, facendo i suoi famosi paragoni tra i geni dello sport e i pochi geni del mondo dell’arte che lui riconosceva come tali, oltre a sé stesso». 
Un altro incontro importante è avvenuto con Luca Ronconi, quando nel 2015 lei era tra i protagonisti di «Lehman Trilogy». 
«La sua ultima regia. Non avevo mai lavorato con Ronconi e non so perché ma pensavo che non sarebbe mai successo: lui non mi aveva mai cercato e neanche io. Un giorno una mia amica mi chiama per dirmi che Luca mi stava cercando, ma prima voleva capire cosa pensassi del suo teatro. “Sai – le aveva detto —, mi scoccerebbe se mi dicesse di no, sentilo prima tu…”. Luca era furbissimo, sapeva come sedurre gli attori, era di una simpatia rara. Poi durante le prove poteva farti impazzire. Mi presentai puntuale a Milano per incontrarlo». 
Come andò il primo approccio? 
«La prima cosa che mi ha detto è stata: “Allora… io e te ci siamo occupati di Gadda in Italia, quindi ci capiamo” – risponde l’attore imitando perfettamente la voce di Ronconi – “Io ho bisogno di attori autonomi come te, perché questo è un testo particolare”. Era il suo modo sinuoso di portarti nell’anticamera dell’inferno. Dopo dieci giorni di prove sono svenuto nell’ascensore del Piccolo». 
Un testo particolare con tutti primi attori. 
«Luca sapeva che con una compagnia così forte si poteva finire per sgomitare. Allora ci pensava lui a menare fendenti micidiali. L’asticella con lui era sempre altissima. Ogni tanto pensavi di aver capito qualcosa e lui ti smontava: “Curiosamente… hai fatto molto bene questo monologo, veramente bene… ma era tutto fuori luogo”». 
Tra colleghi andavate d’amore e d’accordo? 
«Un grande gioco di squadra. Dopo 50 giorni di prove, Luca ci fece scendere in platea. Era commosso e, con le lacrime agli occhi, esordì: “Sapete, non so come verrà accolto dal pubblico questo spettacolo, ma ascoltarvi e guardarvi recitare è una meraviglia”». 
Convivere con colleghi protagonisti in palcoscenico è un azzardo. E convivere in casa con una moglie, Sonia Bergamasco, altrettanto protagonista è difficile? 
«Ha le sue insidie ma molti lati positivi». 
Vi è mai capitato, magari durante un litigio familiare, di dirvi a vicenda: stai recitando? 
«Credo che ci vorrebbe una discreta dose di distacco e di cinismo! Però la recensione in diretta di un litigio potrebbe chiudere la discussione in un attimo». 
Ora è protagonista del film «La belva», sulla piattaforma Netflix, un action-movie dove è un padre alla ricerca della sua bambina rapita. 
«È il racconto di un uomo danneggiato e della violenza primaria che si scatena quando gli rapiscono la piccola. Il mio personaggio si basa su un istinto primordiale: la difesa del cucciolo». 
È soddisfatto dell’uscita sulla piattaforma? 
«È stata una grande opportunità uscire in tutti i Paesi del mondo ma temo molto la disabitudine alla sala, sia al cinema che in teatro. Questa euforia per lo streaming soprattutto a teatro faccio fatica a seguirla». 
E se poi i teatri e i cinema venissero usati come ambulatori per distribuire il vaccino... 
«Gli spazi hanno un’anima, i teatri non sono contenitori neutri. Con tutto il rispetto per i virologi, mi farei venire altre idee e penserei a riaprire le sale il prima possibile». 
A proposito di cuccioli: è padre di Valeria di 17 anni e Maria di 15. Hanno manifestato l’intenzione di seguire le orme paterne e materne? 
«La più piccola minaccia di voler fare l’attrice. La grande è interessata ad altro. Oggi poi è tutto incerto e vale la pena seguire la regola aurea: individua le tue passioni e seguile senza tregua».