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 2020  dicembre 12 Sabato calendario

Intervista a Cees Nooteboom

«Ho percorso il mondo per arrivare qui» scrive in una delle poesie contenute nel suo nuovo libro, intitolato Addio, uno dei più grandi poeti europei viventi.
Ed è proprio così: Cees Nooteboom, nella sua vita che ne ha contenute moltissime altre, è stato scrittore di reportage di viaggio - dall’Iran al Gambia, dal Giappone al Marocco, dall’India alla Tunisia - e autore di opere ibride (ricordiamo soltanto Le volpi vengono di notte e il meraviglioso Tumbas, dove pellegrino va a rendere omaggio alle tombe dei suoi poeti-guida), saggi e, ovviamente, poesie che, tutti insieme, lo hanno fatto ammettere nell’esclusivo club di quelli in perenne lista d’attesa di un Nobel.
Ha viaggiato ininterrottamente, testimone di alcuni degli avvenimenti che hanno puntellato la Storia - la Budapest del ’56, il maggio parigino, la caduta del Muro di Berlino -, dal primo viaggio con lo zaino quando sua madre lo accompagnò a prendere un treno per Breda, alla comparsa sulla Terra del virus che ha fermato tutti e che, tuttora, lo tiene lontano da uno dei posti che gli è più casa al mondo, Minorca, la sua isola nel Mediterraneo. Dove, oltre che quelli di poeta, indossa i panni del suo altro mestiere eletto, quello di giardiniere. «Le mie piante preferite sono i cactus, alcuni li ho piantati 50 anni fa. Il giardino per me è estremamente importante. I cactus, a differenza di altre piante che lo fanno quando sono sollecitate dal vento, non parlano. Solo ogni tanto, se la loro natura glielo permette, fanno un fiore che sfiorisce subito. Questa per me è una metafora bellissima». È difficile piegare le poesia, aggiunge.
Accanto a lui, da 41 anni, c’è la moglie Simone Sassen, che di lavoro fa la fotografa (sono sue le commoventi immagini contenute in Tumbas). Racconta che si sono incontrati in un bar di Amsterdam. «Mi sorprende come il tempo, a volte, possa non esistere. Sono passati tanti anni, edè tutto ancora perfetto».
Ci racconta il silenzio intorno a lei?
«Il mondo è silenzioso in un modo strano, prima di tutto dentro le nostre teste, per questo non andrà via così velocemente. Ricordo che quando tutto è incominciato ero ricoverato a Monaco, io che a 87 anni non ero mai stato in un ospedale in vita mia. Lì dentro c’era un gran silenzio, mia moglie non poteva nemmeno venirmi a fare visita. Poi, quando sono uscito, il mondo era completamente cambiato. Monaco, che è una città enorme, era vuota. Per le strade ad Amsterdam, ora, non c’è quasi nessuno. L’unica cosa che faccio è chiedere a Simone di accompagnarmi in auto al mare due o tre volte alla settimana, così posso camminare liberamente, prendere un po’ di aria».
Come le è venuto il paragone con la guerra, lei che la guerra l’ha vista con i suoi occhi?
«Sempre per il silenzio. Quando la guerra è iniziata avevo 6 anni. I dintorni di casa nostra erano stati attaccati dall’aviazione tedesca. Ricordo che mio padre mise una sedia sul balcone per potere guardare quello spettacolo, proprio come fossimo a teatro. Poi, dopo i bombardamenti, ricordo questo strano silenzio, che è simile a quello di oggi, anche se non ho più modo di provarlo. La stessa atmosfera di attesa. Allora aspettavamo, e anche adesso aspettiamo».
Riesce a vedere qualcosa di positivo in questa situazione?
«È un tempo fantastico per concentrarsi, per pensare a che cosa vogliamo, a che cosa possiamo accettare. Sa che cosa sto facendo? Ho iniziato a ricopiare i miei diari. Ho iniziato a tenerli negli anni ’70, alcune cose sono cambiate completamente, altre sono sparite. Ora sono arrivato all’aprile del 2004 quando ero a New York. Ho appena finito di scrivere di una performance alla New School. A volte ci sono parole che non riesco a capire, sigle che per me ora non hanno alcun significato».
In una delle sue poesie parla di «maschere». Non si può non pensare alle mascherine che indossiamo, a quello che dicono o non dicono di noi.
«Le maschere sono nate per nascondere qualcosa e, di solito, per divertimento. Ora quel divertimento è escluso. È come se tutto il mondo fosse coinvolto in un gigantesco ballo in maschera, ma capovolto: l’unica cosa che non facciamo è proprio ballare. Spesso, tipo al mercato, quando parlo con qualcuno e mi capita di ridere, mi chiedo se anche gli altri lo stanno capendo, se i miei occhi esprimono quel sorriso».
Perché questo titolo, "Addio"?
«Dopo avere letto il libro, un’amica mi ha chiesto: "Non starai mica per morire?", e io le ho risposto di no, ma il fatto è che, per forza, come tutti, un giorno morirò. È curioso perché anche dopo il mio primo libro di poesie, I morti cercano casa del 1956, in molti mi dissero: "Sei così giovane, perché ti preoccupi tanto della morte?". Ma non era quello il punto. Il punto è che se vuoi scrivere di certi argomenti, è meglio farlo adesso, mentre sei vivo, non ha senso rimandare».
La morte la spaventa?
«Sarebbe molto arrogante da parte mia rispondere di no. Ho l’età che ho, e sì, ci penso spesso. Ma non credo sia paura, non è un pensiero morboso, più un volerla accettare. Ci rido anche su!».
Dopo la morte di suo padre durante la guerra, sua madre ha sposato un uomo molto cattolico e lei è stato mando a studiare in collegi francescani e agostiniani. Lei in cosa crede?
«Se la poesia fosse una religione, io sarei una persona religiosa, ma no, non sono membro di nessuna organizzazione. Anche se ho sempre amato i monasteri. Una volta, da giovane, sono andato in un monastero benedettino e ho detto all’abate che volevo prendere i voti. Lui mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: "Va bene. Intanto prendi questo libro in latino e inizia a tradurlo". Dopo tre giorni me ne ero già andato (ride). Vedendola da un altro punto di vista, c’è un aspetto dell’essere monaco che va assieme alla scrittura: dovendo scrivere dei libri di viaggio, molto spesso mi sono ritrovato da solo in minuscole camere di hotel a lavorare. Avrebbero potuto benissimo essere delle celle monacali, dalle quali non potevo uscire perché era lì che dovevo portare a termine il mio compito».
Che cosa le manca di più del viaggiare?
«Non andare nel mio giardino in Spagna, e anche nel mio studio che, sa, è uno studio perfetto per me, lì sono sempre molto felice. Purtroppo l’architetto che lo ha costruito è morto lo scorso inverno e io non sono potuto andare a salutarlo. Per me è anche una novità essere ad Amsterdam in questo periodo dell’anno».
Pensa di avere un’eredità da lasciare?
«Non so se dovrei essere io a rispondere a questa domanda. Se io scompaio e la gente legge i miei libri, ecco, credo che quella sia la mia eredità. Una cosa che mi dispiace molto è il fatto che si legga sempre di meno. Quando vedo il populismo che si sta facendo strada, come negli Stati Uniti dove c’è gente che crede a cose senza senso o palesemente false, penso che quella sia una conseguenza del fatto che le persone non leggono. Chi non legge può credere a qualsiasi cosa»
Qual è il dono più grande della vita?
«Poter parlare con qualcuno come lei del mio lavoro, vederla ridere, e sentire di essere capito».
Se chiude gli occhi quale paesaggio vede?
«L’altro giorno sulla spiaggia c’erano dei giovani che facevano kitesurfing, uno sport che non ho mai provato in vita mia. Sono rimasto lì a guardarli: erano scalzi, c’era un tempo orrendo, il vento era fortissimo, il Mare del Nord non è certo il Mediterraneo. Ecco, io non sono uno invidioso, ma guardarli mi ha reso felice. Quell’idea di libertà che avevano, essere sbattuti su e giù sulle onde a una velocità altissima, con tutto il pericolo che comportava. È stato bellissimo».